La stagione delle riforme sulla giustizia non è ancora cominciata. Si dovrebbe partire dalle regole del processo, come vorrebbe il ministro Carlo Nordio e come pensa si dovrebbe la stessa premier Giorgia Meloni, che si è più volte dichiarata “garantista” prima della sentenza e rigorosa nell’applicazione della pena, dopo. Il problema del carcere è però lì come una montagna, dopo gli 84 suicidi del 2022, con l’estate tragica in cui ogni giorno se ne registrava uno da sommare a quelli del giorno prima.

Pare dunque che si partirà proprio di lì. Il che vuol dire affrontare la questione giustizia dalla sua parte terminale, lasciando immutati, almeno per ora, i motivi e i metodi con cui si arriva alla privazione della libertà. E’ il vecchio errore di quella parte della sinistra, quella degli “anti”, antimafia, antiterrorismo, anticorruzione. Quella che ha una visione guerriera del pubblico ministero, visto non come uno che indaga sul singolo reato, ma come colui che la storia ha investito del ruolo salvifico di lottare contro i fenomeni criminali. Poi, dopo che si sono riempite le carceri di colpevoli e innocenti senza distinzione, solo allora si può cominciare e riconoscere le persone, non per rivalutare i loro diritti ma solo per dare assistenza al povero carcerato. Come se non fosse stato privato della libertà spesso senza processo o troppe volte da estraneo al reato contestato.

Dicono che il sottosegretario Andrea Delmastro, che è un pragmatico, si sia allarmato nel vedere i dati dell’affollamento carcerario dello scorso febbraio: 56.319 su una capienza di 51.285, che è quanto i nostri istituti di pena potrebbero contenere. E quando si è reso conto del fatto che il 30% dei prigionieri è fatto di tossicodipendenti, o comunque di persone accusate o condannate per reati attinenti al mondo della droga, ha pensato di partire da lì. In realtà, volendo, ci sarebbe molto lavoro da fare per i giudici di sorveglianza, che potrebbero applicare di più e meglio il principio della sospensione dell’esecuzione della pena, per consentire a chi abbia una dipendenza di avviare un percorso terapeutico, oppure come accade con i minori, procedere all’affidamento in prova o alla detenzione domiciliare.

Il sottosegretario Delmastro pare però non discostarsi troppo dalla necessità delle manette, anche in caso di imputazione o condanna per lievi reati contro il patrimonio. Però una cosa l’ha capita bene, che bisogna sfoltire un po’ le carceri, anche perché non occorre essere i campioni del calcolo matematico per constatare che dal 31 dicembre del 2021 alla stessa data del 2022 abbiamo nelle carceri italiane ben 2000 detenuti in più. Così, rispolverando antichi provvedimenti legislativi che risalgono al 1990 e che prevedevano per i tossicodipendenti la detenzione in strutture apposite a adeguate allo sviluppo del piano terapeutico, propone, in un’intervista al Messaggero, lo spostamento di questa tipologia di detenuti direttamente all’interno di Comunità del tipo di quella di San Patrignano. Da un’istituzione totale all’altra, quindi. Con l’aiuto delle Regioni e del terzo settore. E con ”tanti paletti”, dice il sottosegretario, senza forse rendersi conto del fatto che il paletto numero uno, quello della sicurezza, rischia di rendere l’iniziativa poco praticabile.

Perché quando si entra in comunità, almeno nel primo periodo, è inarrestabile la voglia di scappare. I terapeuti lo sanno e lo mettono in conto. Ma un discorso è sorvegliare, un altro è avere la polizia alle porte, in servizio permanente effettivo. Le misure alternative al carcere si basano su rapporti di fiducia, militarizzare le comunità terapeutiche dà la sensazione non solo di spostare il problema da un luogo all’altro, ma anche di danneggiare gli altri ospiti della comunità, quelli non detenuti, che vedrebbero menomata la propria libera scelta. Un conto è stare in un luogo chiuso, altro conto è che gli ingressi siano sorvegliati da persone in divisa. Così torniamo sempre al punto di partenza. Perché il cuore del problema non è quello di migliorare le condizioni di detenzione (il che comunque sarebbe già un bel passo in avanti), ma quello di arrestare di meno.

Si potrebbe fingere, per esempio, di essere sempre in balia di un temibile nemico esterno, mettiamo un virus molto contagioso che sconsiglia gli assembramenti nei luoghi pubblici al chiuso. Dare aria alla pena, potrebbe essere un buon titolo per il prossimo provvedimento del governo sulla giustizia. Nei suoi discorsi, l’ultimo alla “London School of Economics”, il ministro Nordio ha tenuto fede ai propri principi e ha assunto l’impegno di una prossima riforma che ridurrebbe sicuramente la popolazione carceraria. Perché riguarda la custodia cautelare e la riduzione “della possibilità che una persona venga incarcerata prima del processo, salvi i casi di flagranza”. La decisione non spetterebbe più al solo gip ma a un pool di sei giudici. Che dovrebbero ponderare bene la decisione e ricordare che la custodia cautelare in carcere dovrebbe essere l’ultima delle soluzioni. A maggior ragione per chi deve intraprendere un piano terapeutico. Senza la polizia sull’uscio.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.