La protervia dei Pm: “Meglio un innocente in galera che un presunto colpevole in libertà”

La credibilità della magistratura non soltanto appare, ma, purtroppo, è in caduta libera. E non solo a causa del marciume certificato dal trojan, funzionante misteriosamente a intermittenza, inoculato nel cellulare di colui che, sino a un paio di anni or sono, era il riconosciuto e imprescindibile punto di riferimento di tutti i magistrati rampanti, impegnati allo spasimo nelle più invereconde partite di potere per l’accaparramento e l’occupazione, spesso in barba al merito e anche alla decenza, delle poltrone dirigenziali nella geografia giudiziaria nazionale, oggi, invece, ingenerosamente additato, magari da quegli stessi petulanti e irriconoscenti clientes, come causa unica di tutti i mali che affliggono il Terzo Potere.

Ma soprattutto, almeno per chi abbia a cuore la civiltà del diritto, a causa dell’inarrestabile e intollerabile deriva inquisitoria del processo penale, sempre più luogo di frode, se non addirittura di violenza, naturalmente entrambi «sante». E questo, a prescindere dal fatto che l’opinione pubblica è invelenita, su un versante, dal calcolo politico e, sull’altro, dagli umori corporativi. Emblematiche, a tale ultimo proposito, le vicissitudini giudiziarie della «Loggia Ungheria», asserita associazione segreta, dai connotati delinquenteschi, finalizzata a condizionare gli equilibri democratici tra i poteri dello Stato, governando il sistema delle nomine ai vertici degli Uffici giudiziari e gli esiti dei processi, svelata da un avvocato, ritenuto fonte attendibilissima da molti magistrati in svariati processi, a un sostituto procuratore, il quale, a sua volta, racconta di averne parlato al suo capo, venendone ostacolato nelle indagini, tanto da doversi rivolgere a un membro allora eminente del Consiglio Superiore della Magistratura, consegnandogli tutte le carte. Col risultato che, allo stato, innescata una guerra per bande, tanto violenta quanto dagli esiti incerti, tra esponenti dell’aristocrazia togata, non si sa ancora se si sia o meno in presenza di una manovra diffamatoria e torbida, inscenata da un settore della magistratura, intenzionato a restare solo al comando e a eliminare i nemici.

Non meno inquietante la sinergia tra magistratura e intelligence, considerato che questi organismi hanno in comune la mancanza di legittimazione democratica che li candida a una potenziale supplenza nei confronti del potere politico in senso stretto. Di tale sinergia si rinviene un esempio, naturalmente si vera sunt exposita, in quanto narrato da Bruno Vespa, nel suo ultimo libro, Perché Mussolini rovinò l’Italia e come Draghi la sta salvando, con riguardo all’asse tra servizi e procure venuto a emersione in occasione dell’ultima travagliata crisi di governo, che alla fi ne ha partorito il gabinetto Draghi: il terzo governo Conte doveva nascere a ogni costo; il segretario di un piccolo partito politico di centro, nei giorni in cui si cercavano «i Responsabili» per dare vita a una maggioranza raccogliticcia, venne sottoposto a incredibili pressioni, alle quali, tuttavia, resistette; per pura coincidenza, tre giorni dopo il rifiuto a entrare in maggioranza, il temerario fu destinatario di una perquisizione domiciliare disposta da una Dda nota per le inchieste roboanti, ipotizzandosi a suo carico il delitto di associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso; residuando ancora seppur esiguo un margine per ripescare Conte. «Subito dopo la perquisizione», racconta l’informatissimo giornalista, il politico «ricevette la visita di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza». Ma torniamo al punto.

Regna un’efferata delinquenza e la giustizia penale, ogni tanto, inscena riti granguignolesci; i funzionari dell’accusa, impegnati in partite capitali dove soltanto occasionalmente può dirsi sia in gioco l’accertamento della verità, filano tele quasi sempre intese esclusivamente alla condanna; e, convinti che ogni altro esito li umilierebbe nell’onore professionale, ritengono di tradire la propria missione se non usassero qualche sordido espediente. Imbarazzante l’entusiastica, acritica accoglienza riservata alle reiterate e compulsive esternazioni di raffinata rozzezza, di taluni esponenti di quell’aristocrazia togata, prodotta dal «sistema Palamara», secondo la fredda chirurgia del relativo manuale spartitorio, le quali catalizzano il consenso complice di moralisti insediati nell’organo di autogoverno; di «colleghi» viscidi, servili e vigliacchissimi, forti con i deboli ma sempre pronti a chinare il capo e a correre in soccorso del presunto «vincitore»; di politicanti truffaldini, accolita di gente mediocre e miserabile che splende per ridicola incompetenza, la cui scelta, se non al capriccio è dovuta all’omertà, alla mancia data al delitto; di gerarchie poliziesche infellonite. È purtroppo ormai un classico: quando, prima o poi, ma comunque sempre più spesso, gli impianti accusatori di ecatombali «operazioni» contro asseriti «sistemi masso-mafiosi» vengono irrimediabilmente demoliti sotto i colpi del maglio impietoso della giurisdizione, ecco questi eroi soi disants, intonare a canto fermo litanie del tipo «Finché indaghi su nomi e cognomi noti della ’ndrangheta tutti ti dicono che sei bravo, che hai coraggio. Ma se vai a toccare i centri di potere oliati che si interfacciano con la ’ndrangheta e la massoneria deviata allora diventi scomodo. E cominci a dare fastidio».

Ovviamente, guardandosi bene dal precisare a cosa e a chi si riferiscano quando parlano di «centri di potere oliati»; e dal fare i nomi di chi ne «ostacola» il lavoro; e dall’indicare in quali zone grigie delle istituzioni si nascondano quelli a cui danno fastidio. Quel che è peggio, tuttavia, è che nessuno pone loro queste domande, appagandosi, piuttosto, di amplificarne il rutilante grido di dolore, ammissione, non si sa quanto voluta, della vacuità delle proprie mirabolanti inchieste e collaudato topos lamentoso della pubblicità ingannevole che le accompagna. Agghiacciante è, del resto, il consenso mediatico di cui godono simili energumeni. Essi possono dichiarare che gli oltre mille innocenti certificati che ogni anno finiscono in prigione sono una cifra «fisiologica». Che le vite distrutte e gli indennizzi milionari che lo Stato deve elargire alle vittime della malagiustizia sono il prezzo da pagare se si vogliono avere dei giudici in grado di contrastare la dilagante «impunità di chi comanda»; tradotto: meglio un innocente in galera che un presunto colpevole in libertà. Che, in Italia, «non c’è alcun giustizialismo, ma solo l’applicazione rigorosa delle sentenze», dando mostra così di ignorare che la somministrazione della pena in virtù di una sentenza di condanna, atto terminativo del processo, non potrà mai dare luogo a indennizzo per ingiusta detenzione, diversamente dall’errore che inficia, invece, l’atto genetico della privazione della libertà personale, come il provvedimento di fermo o l’ordinanza di custodia cautelare, che non sono «sentenze», anche se qualcuno lo creda o lo voglia far credere o ardentemente lo desideri. Che le «critiche» alle loro inchieste, provenienti magari da diversi esponenti della magistratura, sarebbero la dimostrazione del loro aver ragione e del loro lavorare bene, per il principio «tanti nemici, tanto onore». E nessuno fiata.

Quando poi le «critiche» provengono dalla Corte di cassazione, che annullando «senza rinvio» le ordinanze cautelari alla base delle «catture» di massa che portano lustro alla bottega, sottolinea l’evanescenza dei relativi «impianti accusatori», pronto è il ricorso agli avvertimenti ingiuriosi veicolanti neppure troppo velate minacce, del tipo: sono le «mele marce» che tentano di ostacolare il loro «lavoro». Per nulla colpiti da queste esternazioni che tradiscono mancanza di lucidità argomentativa e pesanti deficienze teoriche, paludati maître-à-penser del giornalismo nazionale commuovono per come scodinzolano estasiati e guaiscono solidali di fronte al dilettantismo parolaio, querimonioso, incolto, traffichino, ammiccante, ingordo, intellettualmente opaco. Ma si sa, alle botteghe, anche a quelle istituzionali, giovano gli affari confusi e la teoria esige un lavoro faticoso illuminato da qualche talento, perciò è vomitata da una pratica ingaglioffita.