La riflessione
La quarantena ci sta insegnando come vivono i carcerati
In fila al supermercato. Distanziamento sociale rispettato, stiamo in coda nel grande parcheggio, ognuno sta almeno a tre metri dall’altro. Sono i privilegi degli abitanti di Roma nord, dicono. A destra e a sinistra ancora meglio, ho almeno dieci metri dall’una e dall’altra parte, così, letti i giornali, mi metto a fare avanti e indietro, lasciando il carrello in mezzo. Tanto la fila durerà almeno un’ora. Un po’ di moto fa bene e uno ne approfitta. Cammino con passi rapidi, perché dicono che solo così fa bene. Dieci metri a destra del carrello, dieci metri a sinistra. I vicini di fila neppure mi guardano, di questi tempi le stravaganze fanno parte dell’arredo urbano.
Alla terza volta che lo faccio esamino i miei gesti. Quei passi svelti che si arrestano ad un certo punto, e tornano su se stessi, poi si arrestano e tornano ancora, li ho già visti. Li ho visti a Rebibbia, li ho visti all’Ucciardone. In carcere, all’aria, i detenuti camminano così. Da soli, o a gruppi di due o tre. Camminano rapidi verso un muro, poi fanno dietro front e tornano indietro. Camminano svelti verso il limite di un campetto, arrivano alla fine e ripartono. Su e giù, a volte per un’ora. Non sono gesti naturali, lì c’è la necessità di capitalizzare ogni movimento; stare all’aria è un permesso temporaneo in prigione e bisogna sfruttare ogni istante. Spesso la cosa si svolge in piccoli cortili coi muri alti, e diventa ancora più innaturale. A vederli da distante sembrano formiche impazzite, anche in questo modo capisci cos’è la prigione. E io cammino così, da libero, nel parcheggio del supermercato.
Quando, finalmente, una signora dietro di me mi chiede «Ne approfitta per fare ginnastica?» vorrei risponderle «No, ora che ci sono le condizioni volevo solo farvi capire come si sta in galera. Volevo solo spiegare, per una volta non con le parole, a voi ben pensanti, così ampiamente rappresentati in politica, a destra e a sinistra, cosa vuol dire anche un solo giorno di galera. Farvi vedere quanto sia innaturale poter uscire solo per poco tempo all’aria aperta. Mostrarvi come ti tocca succhiarla, l’aria aperta, quando diventa un bene prezioso che si conta a minuti. Come sia umiliante dover ridurre i propri gesti a caricatura di movimenti.
Di come sia penoso per un essere un umano avere un confine invalicabile fatto da un muro, da una rete, da una porta chiusa, da una catenaccio, o anche solo immaginario. Ora che anche voi vi lamentate di quanto forte è la costrizione persino a stare a casa forse è il caso di farvelo vedere. Ora che fate battute, in fila al supermercato o al telefono con gli amici, sui “domiciliari” cui siete costretti nei vostri bei salotti spaziosi. I “domiciliari”, sì signora, ha presente quelli che fino a due mesi fa commentava col sorriso sprezzante ogni volta che ne parlavano in televisione? “Ecco, li mandano a casa, vedi tu che punizione!” chiosava; però ora capisce che c’è poco da ridere, che anche stare chiuso in casa è penoso, pesante, umiliante.
Oggi che vi scambiate simpatiche battute sui social su quanto sia insopportabile campare gomito a gomito coi vostri mariti, coi vostri figli, ventiquattr’ore al giorno, magari un millesimo di secondo lo dedicherete a pensare che forse le altre battute, molto più feroci, che avete fatto quando avete visto i detenuti sui tetti, erano gaglioffe. Ora che vi lavate le mani tutti giorni mille volte al giorno, anche se non siete neppure usciti di casa, perché avete una gran fifa del Corona, magari capirete la paura dei detenuti che, da animali in gabbia che fanno su e giù nel cortile, oggi si sentono trasformati anche in cavie. Loro, che stanno “dentro” e hanno paura perché le mascherine non le hanno, i disinfettanti neppure, perché campano ammassati uno sull’altro e mangiano quel che cucinano in un cesso.
Forse ripenserete a quando vi siete spellati le mani, durante i talk, quando una di quelle iene manettare che invitano ogni giorno in televisione perché la pensano come la maggioranza degli italiani, ha irriso i cuori teneri dicendo che in galera i detenuti stanno al sicuro dal Corona come i liberi, se non di più. E vi farei leggere le ordinanze dei giudici italiani che hanno ripetuto la stessa enormità, in questo mese, rigettando le richieste di chiedeva di andare ai domiciliari avendo malattie che espongono a maggiori rischi. E parlo dei giudici di merito, quelli che hanno a che fare coi presunti innocenti. Molte ordinanze così: e chissà se tra qualche anno la magistratura italiana ne andrà fiera.
Ora che vi fa incazzare sentirvi oggetto del potere illimitato della prima divisa che incontrate per strada, che vi chiede dove andate, e perché lo fate, che vi costringe a tornare sui vostri passi, che vi tratta come bambini, forse potrete capire. Potrete comprendere che le pene detentive, che si fondano sul dominio assoluto dei corpi delle persone, che la prigione, che schiaccia e al tempo stesso infantilizza, sono cose terribili. Sono le cose più dolorose che possono capitare qui da noi. Sono necessarie, perché non abbiamo ancora ideato qualcosa di meno disumano, ma tremende, non c’è da scherzarci, non c’è da sorridere, non c’è da sotterrarle. Soprattutto non c’è da dire che qui da noi “in galera non va nessuno”, perché non è vero, le carceri scoppiano.
Se, come ripetete garruli nei vostri cinguettii o affacciati ai balconi, avete capito oggi quanto è bella la libertà, fermatevi a pensare a quanto sia dolorosa, e afflittiva, la sua mancanza. E lo sa che le dico, signora, se solo servisse a farvi capire questo, se solo aiutasse a farvi comprendere quanto è orribile la detenzione, almeno una cosa buona il Corona l’avrebbe portata. Però ci vorrebbe una riflessione seria, che duri un po’ di più della “sbattuta di mani” che Lei e i suoi cari avete fatto guardando la via crucis di Bergoglio in televisione e ascoltando le voci dolenti del carcere. Quella è una penitenza che è servita solo a voi, a loro no». Avrei dovuto risponderle così, alla signora, ma non l’ho fatto, ovviamente, perché con questa voglia di galera che c’è in giro magari chiamava la polizia.
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