C’erano 320 giorni di realtà a dar torto a Johnatan Polin, il padre che l’altra sera – alla convention di Chicago – chiedeva al mondo di non dimenticare i rapiti del 7 ottobre. I tanti che – come suo figlio Hersh – sono ancora trattenuti da Hamas. Questa – ha detto rivolgendosi alla platea democratica – è una manifestazione politica, ma il bisogno che il nostro unico figlio e gli altri ostaggi tornino a casa non è una questione politica: è una questione umanitaria.

Purtroppo non è così. Il profilo umanitario della tragedia di quelle famiglie era già destituito quando andavano virali, nella sostanziale indifferenza comune, le immagini dei rapitori che mostravano la deportazione degli ostaggi in un trionfo di sputi e risate. Il carattere umanitario della vicenda cessava di esistere quando davanti all’immagine di una ragazza issata sul cassone del pick-up previa rottura delle ossa, per farcela stare, qualcuno diceva dall’Onu che certe cose non vengono dal nulla. Era consumato qualsiasi nucleo umanitario della faccenda quando sull’immagine di un’altra ragazza – quella tirata fuori da un bagagliaio con i genitali sanguinanti – si affastellavano le pretese probatorie dell’avvocatura negazionista, le stesse poste a insinuare che anche gli stupri del Sabato Nero fossero in realtà l’ennesimo capitolo del romanzo sionista che infangava l’immagine ingiustamente vilipesa della resistenza palestinese.

E non era insensibilità quella che dava un’altra faccia a quel profilo umanitario deposto: era politica. La più oscena, ma politica. La stessa che indugia sulla differenza tra decapitazione e sgozzamento. La stessa che imputa la malasorte degli ostaggi a chi tenta di liberarli, non a chi li ha rapiti. La stessa che si esibisce in mozioni parlamentari che chiedono la liberazione dei “civili”, non degli “ostaggi”, perché notoriamente questi comprendono anche ragazzi e ragazze israeliane che fanno il servizio militare, e non vorrai impedire ai “resistenti” del 7 ottobre di trattenere almeno loro.

Rachel Goldberg, la madre che da quella tribuna si rivolge agli ostaggi e al figlio chiedendo loro di essere forti e di sopravvivere, non combatte da 320 giorni contro la disumanità dei rapitori. Combatte – che lo sappia o no – contro la disumanità circostante che si è fatta politica accettando che la vita di quelle persone potesse essere ricordata, tutt’al più, quando il ritrovamento di qualche resto ne certificava la fine. Se fosse stata la questione umanitaria che non è mai riuscita a essere, Israele non sarebbe stato l’unico paese al mondo in cui i manifesti con le immagini degli ostaggi potevano essere esposti senza finire stracciati o – secondo la dizione di una pregevole organizzazione umanitaria italiana – “rimossi e deposti nel cestino”.