La regista Sarah Friedland “da ebrea” accusa Israele a Venezia: l’uso del certificato di ‘ebraicità’ che si presta alla sentina neonazista

C’era un bel corteo di ragioni per considerare nel modo dovuto – e cioè con il dovuto disinteresse – l’infilata di inascoltabili idiozie in cui si è esibita Sarah Friedland, una regista vincitrice di non so più quale premio alla Mostra del Cinema di Venezia. Basti dire che l’ispirata figliola, nel ricevere quel riconoscimento, ha creduto bene di dichiarare, “in quanto ebrea”, che lo stava accettando “nel trecentotrentaseiesimo giorno del genocidio israeliano a Gaza e nel settantaseiesimo anno di occupazione”.

Già la premessa, e cioè che parlava “da ebrea”, sarebbe stata sufficiente ad archiviare quella sua proclamazione nello sgabuzzino della tossica fuffa periodicamente diffusa dagli artisti, dagli scrittori, dai registi, dagli intellettuali, dagli attivisti che ritengono di anteporre il certificato di ebraicità alla propria militanza. Perché non si capisce quale valore arrechi quella rivendicazione di origine; né si capisce a quale uso debba prestarsi, se non al puntuale uso che se ne fa nella sconfinata sentina neonazista. Ciò che puntualmente è successo con le dichiarazioni di quella regista: accolte ora nel tripudio dell’internazionale antisemita che saluta la contrizione dell’“ebrea” davanti al crimine sionista, ora nella spensierata condivisione di certi democratici di casa nostra – che non nominiamo per vergogna – i quali pure hanno reso omaggio alla “regista ebrea” che non le manda a dire all’entità sterminatrice.

Ma se il beneficio della buona fede non può essere concesso alla fogna social che inneggia alla rappresentante della stirpe genocida siccome prende le distanze da sé stessa, ebbene neppure può essere riconosciuto agli altri. Vale a dire ai giudiziosi pacifisti che campeggiano a Rafah con le insegne “Cessate il fuoco su Gaza” (ma non in Libano o nello Yemen chiedendo “Cessate il fuoco su Israele”) e che rendono omaggio alla “regista ebrea” quando denuncia gli undici mesi di “genocidio” e – avete capito? – i quasi ottant’anni di occupazione”. Perché questo ha detto nella sua prolusione lagunare quella gentile creatura, e cioè che Israele “occupa” da sempre – dunque dalla fondazione dello Stato – quella terra.

Altro che Cisgiordania, altro che Gerusalemme Est, altro che 1967. Macché: è dal 1948 che Israele ha imposto laggiù la sua grinfia usurpatrice. E se lo dice anche una “regista ebrea” che fai, lo metti in dubbio? Se perfino una regista ebrea” denuncia in questo modo il crimine sionista, cioè la stessa esistenza di Israele, hai ancora il coraggio di parlare di antisemitismo se qualcuno reclama lo smantellamento di quella colonia illegale?