Il papa che nominò cardinale Bergoglio
La religione della libertà di Karol Wojtyla. E la denuncia dei rischi che corre la democrazia
“Viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso. Ma, al contrario, vi è una logica morale che illumina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli”

Senza voler assolutamente mancare di rispetto a Papa Francesco, mi sia consentita, “ex partibus infidelium”, una riflessione sul pontefice che lo nominò cardinale. Dall’enciclica “Veritatis splendor” (1993) fino al discorso pronunciato davanti alle Camere riunite (2002), Giovanni Paolo II ha costantemente denunciato i rischi che corre la democrazia quando viene contaminata dal relativismo etico. Questa denuncia, ripresa con forza dal suo successore Joseph Ratzinger, a sua volta si presta al rischio di sanzionare l’irriducibile alterità tra pensiero laico e pensiero religioso. È infatti difficile negare che democrazia e relativismo etico siano un tutt’uno. La democrazia è relativismo. In democrazia i valori sono per definizione relativi. Sono il risultato dell’esperienza storica, e non di una rivelazione divina. Se è così, il dialogo parrebbe finito prima di cominciare.
La questione, tuttavia, è più complicata. Proprio nel suo intervento (senza precedenti) a Montecitorio, Karol Wojtyla sostenne che “viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso; ma, al contrario, vi è una logica morale che illumina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli”. Sulla necessità di fare riferimento a questo comune orizzonte di senso, pena lo svuotamento etico della democrazia, allora tutti i gruppi parlamentari espressero il loro unanime consenso. Durò lo spazio di un mattino. La vecchia regola non dichiarata della politica, secondo cui è giusto fare tutto ciò che si può fare, rimase -come al solito- lettera morta. Forse oggi vale la pena riconsiderare le parole pronunciate dal papa polacco nella sede della sovranità popolare. Parole che incitavano ad alzare lo sguardo non solo verso la “città di Dio” ma anche verso la “città terrena”, per non dimenticare che quello della libertà è il primo dei valori non negoziabili, il valore da cui dipendono la dignità della persona e i suoi inalienabili diritti fondamentali.
È questo il messaggio universale che ci ha lasciato un sommo interprete del cristianesimo come religione della libertà umana. Qualcuno potrebbe osservare che su questa religione della libertà si allungano delle ombre che la oscurano anche pesantemente, e non avrebbe torto. Ma questo nulla toglie all’importanza che essa ancora riveste per qui credenti e non credenti, a cui chi scrive appartiene, delusi e amareggiati da un dibattito pubblico e da una “politique d’abord” in cui i mezzi diventano fini o, nella migliore delle ipotesi, i fini vengono asserviti ai mezzi.
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