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La repubblica dei Prefetti, sospettare un’infiltrazione mafiosa non consente allo Stato di agire come se fosse provata
PQM si è già occupato delle misure di prevenzione, una peculiarità tutta italiana, oggi sotto osservazione da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che fatica a comprendere come sia possibile che una persona assolta dalla originaria accusa di essere mafioso o contiguo alla mafia, possa comunque essere privato di tutti i suoi beni perché sospetti di essere di provenienza mafiosa. Confidiamo, o comunque vivamente auspichiamo, che la giustizia sovranazionale sappia a breve ricondurre sui giusti binari dello Stato di Diritto la legislazione e la giurisprudenza nazionale, che in nome del contrasto – sacrosanto – alle mafie, ha dotato lo Stato di una micidiale santabarbara, in grado di radere al suolo – come si faceva in Vietnam con il napalm – anche ciò che con la mafia non ha nulla a che fare.
Senonché, questo italico museo degli orrori non finisce qui. Per quanto incredibile possa sembrare, esistono infatti nel nostro ordinamento strumenti normativi ancora più invasivi delle testé evocate misure di prevenzione patrimoniali. Due in particolare: le c.d. interdittive antimafia, e lo scioglimento dei comuni per ritenute infiltrazioni mafiose. Protagonisti assoluti di queste micidiali procedure poliziesche sono i Prefetti, che – quanto alle interdittive – le adottano direttamente ed autonomamente, con pienezza di poteri; mentre, quanto alle seconde, ne sono promotori ed istruttori principali. La caratteristica comune ad entrambi gli strumenti è la sufficienza del mero sospetto. D’altronde, è quello il parametro operativo delle polizie di tutto il mondo. Non è che possiamo fare una colpa alla polizia di operare in modo poliziesco.
Il tema è il rilievo, la forza, la efficacia che queste norme sciagurate assegnano al sospetto poliziesco. In uno Stato di Diritto, ci aspetteremmo non debba accadere mai che si attribuisca al sospetto una forza ed una incidenza sulla vita e sui diritti dei cittadini pari a quello della prova di un fatto illecito. Sospettare una infiltrazione mafiosa – osiamo pensare – non dovrebbe mai consentire allo Stato di agire come se l’infiltrazione fosse provata. E se proprio dovessimo rassegnarci ad un simile obbrobrio, per la superiore ed assorbente esigenza di contrastare le mafie italiche, immagineremmo almeno che un ordinamento civile e democratico prevedesse un sistema di controlli giurisdizionali stringenti ed efficaci, volti a sindacare con la dovuta severità la legittimità di quei provvedimenti. Beh, scordatevelo.
La percentuale di annullamenti sia delle interdittive prefettizie che dei decreti di scioglimento di Amministrazioni comunali democraticamente elette è statisticamente risibile. D’altronde, è un controllo affidato ai giudici amministrativi, che sono giudici di legittimità, non di merito, e che dunque limitano il proprio sindacato al rispetto formale delle procedure. E che, per mettere subito in chiaro che non hanno nessuna intenzione di impicciarsi del lavoro dei nostri intoccabili Prefetti, hanno inventato una bella regoletta, cioè un parametro valutativo della sufficienza del sospetto, la formula magica del “più probabile che non”. Essi ci spiegano, sussiegosi, quanto sia vana la pretesa dei ricorrenti di provare la infondatezza dei sospetti in nome dei quali viene distrutta una piccola o grande impresa, o viene annullato il voto popolare. Voi forse invocate la prova che, avendo voi tra i vostri duecento dipendenti anche la cugina incensurata del boss mafioso della zona, questo implichi una qualche effettiva infiltrazione mafiosa nell’azienda? Sciocchini. È sufficiente che l’ipotizzata infiltrazione sia “più probabile che non”. Non è che abbiamo tempo da perdere. Siamo stati chiari? Buona lettura.
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