Cultura
La Resistenza anti retorica e senza eroi di Fenoglio
Nei tanti, verbosi talk bellici ogni tanto qualcuno dice “Le chiacchiere stanno a zero”. Già, però lì ci si va per chiacchierare. Proviamo allora a cambiare ottica e scenario, e prendiamo uno scrittore che odiava le chiacchiere, Beppe Fenoglio. Il Partigiano Johnny uscì postumo, casualmente, in pieno ‘68, e subito venne messo in relazione con la rivolta studentesca (addirittura paragonato impropriamente a Che Guevara, benché Fenoglio fosse anticomunista). Forse si esagerava però esiste pure un legame tra quel grande romanzo incompiuto e l’anima insieme “moralistica” e libertaria di quel movimento, poi obliterata dai partitini.
La letteratura resistenziale è cospicua (ricordo almeno i Calvino e Meneghello, oltre al neorealismo di Renata Viganò e al Rigoni Stern della ritirata russa…), però Fenoglio ha raccontato meglio di tutti la guerra partigiana, in modi anche a volte crudi, asciutti, cronachistici, o altre volte con un espressionismo che inventa nuove parole (straordinario e paragaddiano il mistilinguismo del Partigiano Johnny) per aderire meglio a una realtà così inafferrabile. Senza mai però intenti celebrativi, senza la stucchevole retorica di tanta vulgata neorealista, e anche perciò era guardato con diffidenza dai critici del Pci. Il suo partigiano, ha osservato Geno Pampaloni “non giudica ma sceglie”. Non occorre infatti giudicare o sforzarsi di capire qualcosa che sempre ci resterà un po’ estraneo. È sufficiente scegliere, limpidamente e responsabilmente, sapendo altresì che le nostre stesse scelte sono in parte casuali, legate ad una fatalità, eppure ineluttabili. La sua energia linguistico-retorica – a parte i neologismi e gli inserti di inglese, una inesausta inventività metaforica – è il corrispettivo dell’energia vitale che sta all’origine dei suoi personaggi.
Nel mio immaginario Fenoglio, che peraltro amava la letteratura inglese (da Shakespeare a Marlow e a Coleridge), oltre alla rivoluzione di Cromwell, è imparentato con Orwell. Le differenze tra i due – anche solo dal punto di vista stilistico – sono così evidenti che non vale la pena soffermarcisi. Però in entrambi c’è il primato della morale sulla politica, una profonda onestà verso se stessi, un impegno esistenziale prima che ideologico. Spiriti liberi, al tempo stesso patrioti e inappartenenti, fortemente laici, precipitati nel secolo breve delle ideologie: hanno odiato tutti i totalitarismi e obbedito solo alla propria coscienza (Orwell era uno strano socialista libertario, Fenoglio, monarchico, diventò solo più tardi simpatizzante socialista). Vediamo meglio l’opera e la biografia di Fenoglio. L’8 settembre si trova sbandato a Roma, dove aveva fatto il corso di allievo ufficiale, da lì sfuggendo ai rastrellamenti tedeschi, torna nelle sue Langhe e diventa partigiano nelle bande badogliane o “azzurre”, dopo una fugace esperienza nei comunisti “garibaldini”: “in the wrong sector of the right side”. Il Partigiano Johnny – benché a tratti di lettura ostica (a differenza del romanzo breve Una questione privata, splendido nella concentrazione), per l’uso dell’inglese, per le cacofonie, per la mescolanza di parole ricercate e parole gergali, di lingua letteraria e colloquialità (ha avuto almeno due stesure, e la sua ricostruzione è filologicamente ardua) – è trascinante come una ballata, come un poema epico-narrativo che tiene con il fiato sospeso, impregnato della bellezza del paesaggio, e perciò con punte di un lirismo intensamente cromatico (“le colline naufragavano nel violaceo”, e ancora dalla collina scendono per un sentiero “in una dolorosa orgia di giallo”).
In che modo è rappresentata la guerra partigiana? Direi in tutta la sua grandezza però tragica. Da una parte Johnny sente di doversi schierare, inequivocabilmente. Quando verso la fine un mugnaio gli consiglia di imboscarsi fino alla fine della guerra, tanto gli Alleati stanno per arrivare, risponde: “Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dir di sì”. Combattere i fascisti è per lui, totalmente spoliticizzato, un dovere che viene prima della politica, un imperativo categorico, perfino “una missione senza motivazioni” (Ferroni), e in ciò un poco ricorda la scena finale del “Mucchio selvaggio” di Peckinpah, quando il capo della banda chiede agli altri di salvare il loro compagno prigioniero – ma è una missione palesemente suicida – e quelli rispondono: “Why not?”. Dall’altra le pagine del romanzo sono punteggiate da morti insensate, da orrori ingiustificati. Tutto è ricompreso in una misura più ampia, in un tempo ciclico ed eterno che è quello dell’epos: il succedersi delle stagioni, delle albe e dei tramonti, dove l’unica cosa salda è però la scelta tra il bene e il male, ogni volta assoluti pur nella loro relatività e nella contingenza storica.
Mentre sta per compiere il primo omicidio – una spia fascista – e sparandogli con la pistola lo farà guardandolo negli occhi, “un groppo di catarro saliva procellosamente per la gola di Johnny”. Poi lo seppellirà, camminando sulla neve sporca di sangue, che scrocchia sotto i suoi stivali. La sepoltura somiglia a un gesto rituale che appartiene a quello stesso paesaggio, primordiale e senza tempo, e ne sigilla il destino tragico. La guerra mette a nudo le ragioni ultime di chi vi partecipa – a un compagno Johnny dirà, contro gli ignavi di ogni tempo: “Ricordatelo, senza i morti, loro e nostri, nulla avrebbe senso”. Eppure la stessa guerra sembra rivelare un fondo oscuro, imperscrutabile dell’esistenza.
Orwell parte volontario per la Guerra di Spagna solo per una questione di moral decency, senza perciò ritenersi superiore: passando per Parigi mostra di comprendere e accettare il disimpegno “vitalistico” dell’amico Henry Miller. Il protagonista di Fenoglio, idiosincraticamente antifascista, decide di andare in collina come combattente, per poi liberare i parenti dei renitenti alla leva della Repubblica Sociale di Salò che erano stati imprigionati nella caserma. E, come il suo autore, decide di schierarsi, di difendere ostinatamente la patria e la propria terra avita, per salvare ai suoi stessi occhi la propria dignità. Non manca, pur nella indignazione, una nota di straniante umorismo: i truci repubblichini, rei per lui di aver tradito la patria creando un governo fantoccio filotedesco, gli appaiono “atletici e germanlike… con un risultato visivo verminoso, apertamente, deliberatamente fratricida”.
Nessuno è tenuto a essere un eroe, come ricorda il celebre monito brechtiano (“beato il paese che non ha bisogno di eroi”), e probabilmente oggi l’eroismo epico del passato è chiamato a esprimersi più in modi diversi, nell’azione esemplare, nella disobbedienza civile (che richiede ancor più immaginazione), nella testimonianza non-violenta (egualmente e anzi più rischiosa). Tuttavia avremo sempre bisogno dell’eroismo sobrio, umile, antiretorico, di Fenoglio e Orwell, delle loro scelte esistenziali di campo, limpide e compiute quasi per una vocazione. Nei tanti, verbosi talk bellici ogni tanto qualcuno dice “Le chiacchere stanno a zero”. Già, però lì ci si va per chiacchierare. Proviamo allora a cambiare ottica e scenario, e prendiamo uno scrittore che odiava le chiacchere, Beppe Fenoglio.
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