Chissà se si arriverà alla divisione dei palazzi, magari anche in vie diverse. Da una parte i pubblici ministeri, dall’altra i giudici. Per ora accontentiamoci della separazione delle carriere, approvata ieri con un applauso dal Consiglio dei ministri e fortemente voluta da uno come Carlo Nordio che ha passato la vita sullo scranno del pubblico accusatore. Un babau per quelli che, come Silvio Berlusconi e Forza Italia, hanno sognato per trent’anni questo giorno. Pure il primo cambiamento, la rottura dell’anomalia italiana, lo sta realizzando questa “strana” ex toga veneziana.

Da Falcone a Calamandrei, il “caso italiano”

Nordio ha dedicato la riforma a due grandi giuristi del passato. Giovanni Falcone, la cui effigie orna gli uffici di indegni successori, uno dei primi a sostenere la necessità di separare chi accusa da chi decide e di rafforzare l’imparzialità del giudice. E Giuliano Vassalli, colui che riuscì a portare in Italia, nel 1989, il processo di tipo accusatorio, per quanto annacquato dall’avverbio “tendenzialmente”. Avrebbe potuto ricordare anche Piero Calamandrei, che nell’assemblea Costituente aveva manifestato i primi dubbi sull’unicità delle carriere. Gli fu detto che qualcuno se ne sarebbe occupato in seguito. Non è più capitato.
È una storia che comincia da lì, questa della corporazione unica, il “caso italiano” che rappresenta il vero peccato originale della storia delle tante ingiustizie del Paese.

I casi Montesi, Tortora, Piccioni: la giustizia in Italia

Si va dal “caso Montesi” degli anni cinquanta, uno scandalo politico che coinvolse il figlio innocente del vicepresidente del consiglio democristiano Attilio Piccioni, fino alla tragedia di Enzo Tortora del 1987, anno in cui fu definitivamente assolto, trent’anni dopo il riconoscimento dell’innocenza di Piero Piccioni. Ogni volta, dopo ogni scandalo, si denunciò il mal funzionamento della giustizia, ogni volta il parlamento giurò che se ne sarebbe occupato, che avrebbe risolto. Che per prima cosa si sarebbe attuata una riforma per separare le carriere di chi accusa da chi giudica. Gli italiani si abbeveravano ai primi filmini con Perry Mason, l‘avvocato che sconfiggeva l’antipatico procuratore distrettuale. E lo poteva fare perché gli erano consentite le indagini investigative e poteva muoversi alla pari con il suo antagonista. Per accedere alla stanza del giudice, l’unico che in aula sedeva su uno scranno più alto, mentre da noi nel processo inquisitorio anche il pm godeva di quello stesso diritto, i rappresentanti di accusa e difesa dovevano bussare alla porta. Ora, avete mai visto in Italia, mentre l’avvocato deve chiedere permesso possibilmente a capo chino e cappello in mano, un pubblico ministero che debba bussare per entrare dal giudice? Sta andando da un collega, mica da uno superiore.

Ma anche dopo che Enzo Tortora di ingiustizia ci era anche morto, e anche dopo un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, in Italia non cambiò nulla. La riforma del processo penale trovò la resistenza assoluta della gran parte dei magistrati, che rimasero affezionati al sistema inquisitorio e fecero di tutto per interpretare il nuovo con la mentalità del vecchio. Ci mise del suo la Corte Costituzionale la quale, in nome della necessità di non disperdere le prove, sancì che in quell’aula dove si sarebbe dovuta formare la prova ex novo potesse entrare di tutto, chili di carte del fascicolo del pm. Un inquinamento di tipo inquisitorio che troverà i suoi momenti di trionfo, in seguito, con la legislazione “antimafia” e la nascita del doppio livello. Nasce, a partire dal 1992 con le aggressioni violente di Cosa Nostra, la cultura legislativa del “salvo che”, l’eccezione che vanifica qualunque regola dello Stato di diritto.

La giustizia in Portogallo, Francia e Germania

Che cosa succedeva nel frattempo in Europa? In Portogallo fin dal 1978, pur non optando per il modello anglosassone, si è attuata una separazione organica tra la carriera dei giudici e quella dei pubblici ministeri. Sono due corpi autonomi, pur non dovendo rispondere il pm al ministro di giustizia. È il sistema più simile al progetto di riforma del ministro Nordio. Ma è anche l’unico, se il modello italiano approvato dal governo rimarrà tale anche dopo i doppi passaggi parlamentari, ad avere un pm forte che non risponde a nessuno del proprio operato. Come è invece nella gran parte degli altri sistemi europei, come la Germania, dove il pubblico accusatore è addirittura un funzionario dipendente del governo. Persino in Francia, dove invece non c’è separazione di carriere ma dove il pm dipende dal governo, il che non ha impedito alla magistratura di processare persino il ministro guardasigilli in carica.

La ‘magistratura famiglia”

A dimostrazione del fatto che tutti i mantra agitati dal sindacato delle toghe sull’autonomia possono essere carta straccia se ci sono magistrati professionali, preparati e lontani dal circo mediatico. Ma noi abbiamo invece il culto della magistratura-famiglia, in cui giudici e pubblici ministeri provengono dalla stessa cucciolata e guardano con sospetto chiunque sia “fuori”. Così, nel corso delle indagini, che restano il piatto forte del processo, anche perché sono i momenti in cui la difesa è costretta a essere cieca sorda e muta perché nulla può fare, il pm sembra il fratellone grande del giudice e l’avvocato solo l’intruso arrivato da fuori. Il fratellone grande passa le carte al piccolo e guai a discostarsi. O il giudice fa il copia e incolla oppure rischia, se sfida il pm. Ben venga quindi questa riforma che separa le carriere e i Csm e sottrae all’autogoverno della magistratura il potere sul disciplinare. Ma quando divideremo i palazzi?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.