Nella Linea d’ombra di Joseph Conrad (1917), un giovane capitano senza nome della marina mercantile, al suo primo comando, deve portare la nave da Bangkok fino a Singapore. Dovrà attraversare una misteriosa, spossante bonaccia e dovrà affrontare una epidemia scoppiata a bordo (una febbre tropicale), oltre ai fantasmi del comando precedente. Ma riuscirà a portare a termine la propria impresa giungendo finalmente in porto, sia pure con l’equipaggio moribondo. In che modo? Qual è la risorsa principale del capitano? Soprattutto accettando il limite, i propri errori. Questa è la lezione del grande scrittore polacco, naturalizzato inglese (il primo migrant writer!), utile da rimeditare anche in questi giorni.

Il racconto lungo o romanzo breve di Joseph Conrad (il suo migliore accanto a Cuore di tenebra) pubblicato durante la Prima Guerra Mondiale e dedicato al figlio che stava combattendo al fronte, riguarda non solo il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, ma la questione del farsi dell’esperienza, la quale non si trova mai lì dove ce l’aspettavamo o dove volevamo provare il nostro valore, non è il risultato di un atto di volontà. Semplicemente accade, mentre noi eravamo impegnati a fare altro, e sempre ci sorprende. Non si può pianificare in alcun modo, altrimenti non è esperienza. Inoltre: non riguarda solo la nostra coscienza o le nostre scelte consapevoli ma anche sempre gli altri, ed è perlopiù dettata dal caso, dal concatenarsi di molte circostanze: su quella nave nel Golfo del Siam il giovane comandante impara tra l’altro che siamo tutti sulla stessa barca, in un rapporto di interdipendenza.

Potremmo dire: l’esperienza è invece il confronto con se stessi – un confronto serio, limpido, onesto – a partire però da qualcosa di esterno e di totalmente inaspettato. Il punto di vista di Conrad si configura dunque come antieroico e antivitalistico. Per andare a quegli anni immagino che per lui non poteva essere considerata veramente esperienza l’impresa di D’Annunzio a Fiume (troppo voluta, troppo cercata…). Si tratta di una consapevolezza che ha a che fare con il meglio della nostra modernità laica, della cultura occidentale, borghese, scettica e razionalistica. Vi propongo una frase di Montaigne, tratta dai suoi saggi: «Mi accade anche questo: che non mi trovo dove mi cerco; e trovo me stesso più per caso che per l’indagine del mio giudizio».

Questa nozione di esperienza come evento inintenzionale, che ci costringe alla passività, suggerisce tra l’altro una riflessione sui limiti della condizione umana, limiti che occorre sempre riconoscere. Nel finale dei Duellanti, un altro romanzo breve, pubblicato nel 1908, al termine del duello durato molti anni tra il meridionale, collerico, testardo, truculento Feraud (presentato come basso e tarchiato) e il settentrionale D’Hubert, freddo, controllato (presentato come alto e nobile d’aspetto) leggiamo che «nessuno riesce mai in tutto quello che intraprende. In questo senso siamo tutti dei falliti…». Bene, l’accettazione di questo destino di fallimento (o se preferite di semifallimento) non coincide per Conrad con un pensiero debilitante o pessimistico. Tutt’altro.

È invece il realistico, adulto riconoscimento del limite della nostra condizione. Noi dobbiamo infatti sapere che sempre il fallimento incombe sull’impresa umana (perché sempre esiste uno scarto tra desideri e loro realizzazione, tra sogni e realtà, tra progetto e destino). Tutto sta nel saperlo “giocare”, nell’usarlo come strumento di conoscenza. In Conrad, e aggiungo nella migliore cultura laica, la maturità coincide sempre con l’accettazione del vuoto, dell’impotenza, della bonaccia esistenziale. Non credersi onnipotenti ma coltivare pazienza e umiltà. Il che non significa ovviamente rinunciare a fare tutto ciò che dobbiamo fare…

Torniamo al racconto conradiano. Come impara sulla sua pelle il giovane capitano di Conrad, l’esperienza reale ci afferra e ci scuote dal di fuori, costringendoci ad un’attesa passiva, ai tempi morti della bonaccia esistenziale. Perciò oggi essa sembra godere di molto meno attrattiva per un’umanità mutante e voyeuristica, illusa di pianificare il caso, che ama l’avventura solo nei videogame, che non tollera la noia. Mentre anche oggi, invasi dagli ultracorpi, in fondo dobbiamo cercare di governare l’attesa, di accettare la noia e il limite, di usare la sventura.