Sano decisionismo o svolta autoritaria? Scelte in nome del supremo interesse nazionale oppure in grado di spaccare il Paese? Le vicende francesi di queste settimane a proposito del contestatissimo innalzamento dell’età pensionabile possono essere lette anche in un’ottica politico-istituzionale, offrendo spunti di riflessione che possono tornare utili in un momento in cui nel nostro paese è riemerso, come un torrente carsico, il dibattito sul presidenzialismo.

Da un lato, infatti, si pone chi in esse trova conferma della necessità, in società sempre più frammentate e divise, di un governo forte, capace di prendere decisioni magari impopolari nell’interesse supremo del Paese. Secondo costoro dalla crisi del tradizionale assetto bipartitico, come quello francese basato un tempo sull’alternanza tra socialisti e gollisti, causata anche dall’affermazione di partiti populisti antisistema, se ne può uscire solo attraverso l’elezione diretta dell’esecutivo, anche quando ciò significhi trasformare la maggiore minoranza in maggioranza (e infatti Macron è stato eletto al ballottaggio avendo preso al primo turno nel 2017 il 24%, nel 2022 il 28%). E anche quando, come è accaduto per la prima volta nel 2022, il Presidente non ha più la maggioranza nell’Assemblea nazionale (unica camera politica), il sistema di governo offre strumenti che permettono alla minoranza di poter governare in assenza di una maggioranza (assoluta) ad essa compattamente contraria.

Come esattamente la questione di fiducia prevista dall’art. 49.3 Cost. grazie alla quale, in Francia, una proposta di legge di finanziamento della previdenza sociale – come giustappunto è accaduto per la riforma delle pensioni – si considera approvata a meno che entro 24 ore sia stata presentata ed approvata a maggioranza assoluta una mozione di sfiducia al Governo. Il fatto che il ricorso alla questione di fiducia abbia ulteriormente acuito le proteste dei francesi – magari dalle nostre parti viste da taluno con nostalgica ammirazione ma inaccettabili nelle loro violenze – dimostra invece che c’è un punto oltre cui i meccanismi decisionali tesi a garantire la governabilità del paese finiscono all’opposto per metterne a rischio la necessaria coesione sociale, anzi lacerandolo ulteriormente. I sistemi di governo a prevalenza dell’esecutivo – siano essi presidenziali (Usa), semipresidenziali (Francia) o parlamentari (Gran Bretagna) – presuppongono una cultura politico-costituzionale omogenea, basata sulla condivisione di principi comuni.

Quando invece vi sono “molti partiti, molto divisi”, per riprendere l’espressione che Mortati utilizzò in Assemblea costituente per sostenere l’adozione della forma di governo parlamentare, espressione a loro volta di una società eterogenea, attraversata da profonde fratture di diversa natura (ideologiche, regionali, socio-economiche, religiose, culturali-etniche, urbane-rurali; ideologiche, regionali; oggi anche la collocazione internazionale e il rapporto con l’Europa) il sistema di governo ha invece bisogno di prestazioni di unità che cerchino di superarle attraverso il confronto principalmente parlamentare. Sotto questo profilo non si può ignorare come il ruolo di Macron nel semipresidenzialismo francese – a un tempo Presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini e capo dell’esecutivo (rispetto a cui il Primo ministro è un “parafulmine” o, nel peggiore dei casi, un “fusibile” da sostituire all’occorrenza: Borne dixit) – abbia finito per acuire il conflitto politico-sociale.

Al contrario, la presenza, in un sistema parlamentare come il nostro, di un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento a larga maggioranza, con compiti di garanzia quale rappresentante dell’unità nazionale, costituisce invece un elemento di moderazione e di stimolo, un punto di riferimento riconosciuto e apprezzato da tutte le forze politiche, specie nei momenti di particolare difficoltà del sistema, come ricordato dall’ex presidente del Consiglio Monti sul Corriere del 20 marzo scorso proprio a proposito dell’approvazione della riforma pensionistica.

Introdurre l’elezione diretta del presidente della Repubblica significherebbe rinunciare a questa risorsa politico-istituzionale indispensabile, trasformandolo da organo di garanzia ad organo politico, alla cui titolarità si candiderebbero i leader delle forze politiche. Avremmo dunque un Presidente di parte, non di tutti, eletto sulla base di un programma politico a seguito di una dura competizione elettorale. Esattamente come oggi è – e soprattutto viene percepito – Macron, il quale soprattutto per questo motivo stenta a far passare anche nell’opinione pubblica francese meno incline a resistenze corporative una riforma che avrebbe certamente dalla sua fondati motivi di equilibrio, anche transgenerazionale, della spesa pubblica.