«Dell’arco, invero, il nome è vita, ma l’opera è morte» (Eraclito, I frammenti).

Se è vero che tutto scorre, chiunque abbia dimestichezza con un fiume sa che l’acqua, passando, lascia comunque tracce e sedimenti sul suo letto, che rappresentano quello che in fondo dobbiamo ancora sforzarci di chiamare storia. Mi sono venute in mente subito queste immagini, che raccontano dell’equilibrio precario, ma a suo modo formidabile delle società umane, leggendo le sette tesi di Niccolò Pecorini, Federico Tomasello e Dario Danti, che hanno dato vita a un dibattito a cui partecipo con gioia. Le loro suggestioni volano alto rispetto al depresso barometro politico contemporaneo, e sfidano quella curva dell’attenzione che dai tempi di Dostoevskij a oggi è precipitata da venti minuti ai 140 caratteri; eppure le loro parole non sono “acqua che non leva sete”, orpelli superflui da retwittare un tanto al chilo, ma un terreno di riflessione profondo, nel quale si può affondare con piacere la propria mano per sporcarsela, smuovendo così un po’ di terra intorno a sé.

A me, hanno ricordato quanto sia decisivo, oggi come sempre, svolgere i fili caotici e ingarbugliati che intrecciano le urgenze che attraversano il pianeta. E come queste siano nel loro insieme il vero (s)oggetto del contendere nel mondo bio-politico globale, la vera “sfida” che non può continuare ad essere il mero titolo di qualche programma elettorale di questo o di quella in lotta, ad anni alterni, più che altro per la propria sopravvivenza istituzionale. Se il disequilibrio che atterrisce il filosofo si trasfigura, sul versante dell’esperienza storica, nelle disuguaglianze sociali, economiche e di genere, è indubbiamente necessario che questo rimanga il terreno privilegiato, se volete unico, di qualunque battaglia reale per il cambiamento. Ma questa lezione classica deve definitivamente fare i conti con la frammentazione psicologica, prima che fisica, dei cosiddetti, spesso presunti, “soggetti della trasformazione”, con il travolgimento della riconoscibilità del conflitto di classe, con l’inevitabile arretratezza dell’analisi e delle rivendicazioni su base nazionale.

Oggi, e la drammatica pandemia legata al Covid-19 lo sta ulteriormente segnalando, occorre intervenire radicalmente e globalmente sul perimetro geografico e sociale degli scontri in atto, da quello tra modelli istituzionali neo-autoritari e democrazia partecipata e di genere a quello tra estremismo tecnologico e lotta al cambiamento climatico; da quello tra razzismo neo-identitario, su basi etniche o religiose, e un nuovo internazionalismo dei diritti umani, a quello economico e sociale fondato sui nuovi paradigmi di moltiplicazione della povertà e concentrazione della ricchezza globali. Lo ius soli e il reddito sono il primo nuovo indispensabile argine alla definitiva demolizione della convivenza pacifica tra i popoli e le generazioni. Il diritto universale alla cittadinanza e alla dignitosa sopravvivenza si tengono, come le due estremità dell’arco teso di Eraclito. Sono gli unici ganci in grado di tenere la corda in equilibrio, e di lavorare così per la pace.

Senza di essi, la freccia dello scontro sociale, della migrazione economica globale continuerà a scoccare inesorabile, generando povertà, miseria, violenza. Il momento è decisivo, anche perché nel frattempo il rapporto tra uomo e natura continua a mutare, dato che il divenire tumultuoso è l’unico alfabeto che accomuna l’intera specie umana. Ma l’Antropocene non è solo una fotografia acida, è un time-lapse che sta portando al collasso ecologico, inevitabile se un diverso equilibrio non sarà rintracciato rapidamente tra la inarrestabile fame energetica degli esseri umani e le inequivocabili ragioni di Gea. La difesa della natura è un’ulteriore e ineludibile parola d’ordine globale, ma va declinata come slancio tecnologico, come innovazione e potenza della transizione energetica per la fuoriuscita progressiva e concreta dai fossili, e non come l’inveramento di patetici luddismi o di pauperismi passatisti. La sfida è quella di recuperare con urgenza assoluta l’equilibrio ecologico, ma sapendo che si tratterà di un approdo inedito e di un avanzamento tecnico e industriale, e non certo del ritorno al cacciatore-raccoglitore o al buon selvaggio, che a dire il vero tanto buono non è mai stato.

L’accelerazione delle mutazioni e la resistenza al cambiamento sono le cifre costitutive del nuovo pallottoliere globale, all’interno del quale gli esseri umani stanno mutando anch’essi; per questo la sfida di genere al modello patriarcale è decisiva nella ricerca di nuove dinamiche e strutture sociali. Bisogna de-virilizzare la società degli uomini, convincere i maschi a godere pubblicamente delle proprie debolezze e delle proprie fragilità. Sarebbe questo, è solo questo, un primo autentico gesto di forza maschile, e non di brutale violenza.  In quest’ottica, anche l’educazione delle giovani generazioni al passaggio culturale dalle patrie alle “matrie”, dalle comunità identitarie alle società dell’accoglienza, sarebbe un contributo fondamentale al superamento delle logiche del patriarcato Consapevoli, però, che quello degli stati nazionali è in ogni caso un vestito gualcito che agli europei toglie ormai assai più di quel che dà. La dimensione continentale è il perimetro minimo di ogni cambiamento possibile per noi europei, e un nuovo patto costituzionale continentale deve essere l’obiettivo dei nuovi cittadini europei. Occorre una nuova Repubblica d’Europa e non più solo l’Unione degli Stati europei.

Ma chi e cosa possono interpretare collettivamente queste urgenze? Domanda difficile, alla quale bisogna evitare innanzitutto di dare risposte ideologiche, siano esse ancorate saldamente nel Novecento, o ben piantate nella bio-politica dei millennial. L’ultima cosa di cui si sente il bisogno è una nuova disfida teorica sul “soggetto della trasformazione”: il rider schiavizzato in bici, figura relativamente recente dello sfruttamento capitalistico globale, non è meno emblematico delle figure classiche della commessa pagata una miseria in nero nei negozi di abbigliamento, o degli operai della Whirlpool occupata di Napoli. Il problema è, semmai, che la narrazione prevalente li spinge a combattere tra loro l’ennesima guerra tra poveri, e che, nonostante la loro miseria reddituale, è più probabile trovarli tutti in fila per i provini del Grande Fratello o per l’uscita dell’ultimo modello di scarpa cool, piuttosto che ad una manifestazione per il reddito di base.

Per questo, io non penso affatto che dobbiamo stracciarci le vesti alla ricerca del fantomatico “proletariato del nuovo millennio”, meno che mai provare a rianimare creature del passato. Né DiogeneFrankenstein, ma la fatica di ciascuno nel camminare e domandare, facendo pezzi di strada e di lotta assieme, senza giudizi né, soprattutto, pregiudizi. Una strada in salita, certamente, ma una cosa è evidente: non si può andare avanti con la stantia ingegneria quantistica delle micro organizzazioni cetuali, con le mollichine di Pollicino che non aiutano ad uscire da alcun labirinto. Occorre (ri)costruire una rinnovata solidarietà politica basata sui percorsi e il transito di coloro che vogliono essere coinvolti, rintracciare una nuova comunità politica fondata sul ripudio del peccato originale, sull’incontro delle diversità e sulla ricchezza delle esperienze e delle occasioni. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, diceva giustamente il Nazareno. Ecco, se non confondessimo più la coerenza (quando non l’interesse) individuale con la verità collettiva, sarebbe già un bel passo avanti.