Se n’è parlato poco, ma l’Italia ha ospitato a Trieste anche il G7 dell’Istruzione, dal 27 al 29 giugno. I ministri presenti hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta in 22 punti. Ne è uscito raggiante Giuseppe Valditara, che in conferenza stampa ha richiamato come primo elemento la straordinaria concordia sulla «necessità di valorizzare i talenti di ogni giovane». La valorizzazione del talento diviene dunque la grande direttrice su cui orientare la scuola del domani. La prospettiva ci entusiasma non poco, ma è bene che il ministro sappia da dove si parte, e che glielo si dica, dall’interno della scuola, nel modo più netto e radicale, che è questo: non solo la scuola italiana non promuove il talento, ma gli è nemica. Nella sua impostazione organizzativa, nelle sue logiche di spesa, nella sua più diffusa mentalità.

Colmare il debito, non potenziare il valore

Si osservi la sua prassi più comune, la valutazione. Immaginiamo la pagella ipotetica di uno studente: tutti sette, un cinque e un nove. Dove si soffermerà, in prima istanza, l’attenzione dei genitori e del Consiglio di Classe? Su cosa lo Stato investirà risorse? Sul recupero del cinque, ovvio! La scuola italiana, per una scelta radicata e mai discussa, quando non può provvedere a entrambe le cose, sceglie di colmare il debito, non di potenziare il valore. È proprio una strada obbligata? Non è forse l’ora, a partire dalle premesse del G7, di mettere in discussione questa radicata consuetudine di valutazione dei percorsi? Va poi detta un’altra cosa, con eguale franchezza. Non solo a scuola spesso non si valorizza il talento, ma l’eccellenza talentuosa e spiccata, la predilezione immersiva per una disciplina, sono qualcosa con cui buona parte dei docenti “antipatizza”, quasi fosse un male da estirpare.

Chi merita

È vero, questa predilezione si associa spesso, per la natura stessa dell’adolescenza, a una certa ostentazione snob che va moderata, ma tante volte – servono su questo parole chiare e forti – si tende a “spezzare le gambe” senza preoccuparsi di salvare il buono. Rimane esemplare un’intervista sull’esperienza scolastica rilasciata qualche anno fa al Corriere dal jazzista Stefano Bollani. «Un ragazzo è un genietto in qualcosa? La scuola gli risponde che però ha preso 5 in Storia dell’arte. Forma gente che si abitua a stare seduta davanti a un capo. Non ti prepara alla vita, ma a un lavoro in cui qualcuno ti dice cosa devi fare». Nel giugno 2012 ero commissario esterno all’Esame di Stato. Si presentava ancora una sorta di tesina e una ragazza tirò fuori un percorso fotografico di una meraviglia estrema. Era qualcosa che andava ben oltre tutto ciò che avevamo visto dagli altri, per creatività, intelligenza, capacità di sguardo critico e personale su tutta l’arte del Novecento, eppure non poteva ottenere il massimo per un errore in una prova precedente, mentre altri ottenevano il massimo senza aver dimostrato qualcosa di neppure avvicinabile a ciò che lei esibiva. La sentii come un’ingiustizia, ma mi accorsi di essere quasi solo. Non la vivezza estrema, non la qualità imponente meritavano la lode, ma la completezza. Lei avrebbe preso il volo con grandi successi nel suo settore, ma per la scuola altri “meritavano” più di lei.

Quando la scuola svaluta

Si dirà che fin qui si è parlato di esempi particolari, di genialità imponenti poi emerse, ma è forse ancor più urgente richiamare le esperienze negative: il dramma di tanti ragazzi che alla fine del percorso delle superiori si ritrovano del tutto privi di stima per le proprie qualità. Non solo la scuola non ha accresciuto questa stima, ma in molti casi è proprio lei ad averla distrutta con meccanismi, anche impliciti, opposti, di svalutazione. Gli studi degli psicologi accolgono sempre più spesso disagi di questo tipo, originati proprio dalla scuola. Non si tratta di dire “bravo” a tutti per partito preso, ma di scoprire e valorizzare quel po’ di talento che è in ciascuno, e che, si badi bene, non è scelto ma è dato. È proprio ciò che il ministro dice di voler fare e si è cominciato a fare con le figure dei tutor, ma lo si faccia sapendo che su questo c’è bisogno di una vera inversione a U, quella che una volta si chiamava “rivoluzione culturale”. Per costruire c’è bisogno di estirpare abitudini e concetti radicati, perché la scuola di oggi è l’esatto contrario della scuola del talento.

Pino Suriano

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