Il racconto/1
La Seconda Guerra Mondiale: i ricordi e gli orrori dei bombardamenti e dei morti
Qui comincia un’avventura: il racconto della nostra storia dalla fine della guerra a oggi, un anno alla settimana partendo dal 1945, l’ultimo anno di guerra guerreggiata e anche della fine della guerra. Ma, ancor più, delle apocalittiche stragi della guerra, e naturalmente della liberazione e dei partigiani e delle ultime sacche tedesche e della pace fragile, incerta, senza che fosse chiaro il nostro destino e la nostra fine. Tutto era nell’aria e tutti sapevano anche senza che si dicesse più del necessario. I racconti del sangue e della pena erano talmente eccessivi, che annoiavano. E poi la riscoperta libertà a mano armata, delle vendette che come fai a impedirle e anche quelle che invece erano altre stragi e bugie e verità e ombre e luci e silenzi e altre bugie e cose che assolutamente non si potevano dire né pensare. Le uniformi alleate erano amichevoli e festose. Non ricordo i tedeschi. Soltanto i loro passi di notte, ma non le loro facce.
Non sono uno storico di professione ma sono un torbido amante della storia. Uso uno dei grandi doni dei nostri tempi, che è l’accesso ai documenti filmati che non si erano mai visti prima: centinaia di ore e di immagini che permettono a tutti di farsi le proprie idee ma più ancora di provare le proprie emozioni. Purtroppo, il novanta e oltre per cento di quel che si trova su Internet e specialmente su You Tube, è in lingua inglese. Sono riuscito nella mia vita a dotarmi di questo settimo senso che consiste nel poter godere ciò che è prodotto in quella lingua, e consiglio a tutti, specialmente a chi abbia finora soltanto letto e studiato sui libri, di correre a guardare i documentari fatti di immagini e documenti, a letto o sul divano, sotto un albero o mentre piove e guardare il nostro passato con gli occhi delle macchine fotografiche e video. Io da tempo non sono più giovane, ma quest’anno lo sono in maniera speciale perché sto per compiere ottanta anni. Nel 1945 avevo dunque cinque anni e non sapevo che milioni di miei coetanei se ne andavano in fumo nei camini di Auschwitz. Non lo sapeva nessuno. Ma appartengo alla generazione dei bambini perduti. Ricordo i bambini polacchi, sfollati a Grottaferrata, alle porte di Roma. Non ho idea del perché i polacchi fossero sfollati alle porte di Roma, ma tutti i popoli erano nel caos e si perdevano nudi e affamati. Li invidiavo perché avevano i capelli biondi e le sopracciglia nere. Io ero rosso e non erano un portafortuna, i capelli rossi. Giocavamo con i carri armati sfondati anneriti dalla puzza della morte.
Avevo visto l’anno precedente i carri armati Sherman parcheggiati nel giardino di piazza Cairoli e un soldato nero con le Lucky Strike nella retina dell’elmetto si era sporto dal suo carro e mi aveva offerto un cake nel cellophane che mia madre gettò via perché fascisti e tedeschi abbandonando Roma avevano detto che i bambini sarebbero stati avvelenati o fatti esplodere con matite al tritolo. Le immagini dei partigiani a Milano, i camion, le donne che marciano con impermeabile e mitra, come le immagini dei campi di sterminio e della bomba atomica sarebbero arrivate più tardi… Noi eravamo già stati liberati, ma ricordo che quando andavamo in campagna in Sabina io e mia cugina venivamo ancora nascosti nelle bigonce del somaro e coperti di foglie di fico. Poi si sentiva un ronzio ed era Pippo. Pippo era qualsiasi ricognitore o caccia, amico o nemico, inglese o tedesco o americano, che veniva a rompere il cazzo a chi viveva nella paura tra i campi e le formiche usando le sue mitragliatrici come la gomma per cancellare i contadini, i bambini e i cani ridotti a strie di sangue e scarpe spaiate. Passava Pippo e ci buttavano per terra nel fosso e sentivi i sassi che scoppiavano e poi qualcuno magari ci restava secco e si diceva che c’era scappato il morto che non era mai un morto preciso, ma un morto come tutti gli altri, con un telo e senza scarpe.
A febbraio c’era stata la Conferenza di Yalta con i quattro grandi. E si dice che Churchill si scambiò con Stalin una bustina di fiammiferi con scribacchiato il consenso a prendersi (Stalin) i Paesi dell’Europa dell’Est che lo stesso Churchill due anni dopo, a Fulton negli Stati Uniti, avrebbe chiamato oltre-cortina, oltre the iron courtain che taglierà in due l’Europa. A me bambino già risultava nelle emozioni familiari, la guerra fredda. Mio zio giovane comunista girava in bici spargendo volantini, mio padre più conservatore discuteva ad alta voce e poi gli americani che ballavano il boogie-boogie per strada e giravano le camionette perché mancavano gli autobus e si saliva con una scaletta di legno. Mi facevano studiare a casa con un anno di anticipo, indottrinato da una vecchissima vanitosa maestra amica di mia nonna, tutta incipriata che non sorrideva mai per non far crescere le rughe.
Portava un enorme cappello pieno di veli e riporti e odorava di cipria ed era stupida e cattiva. Dirò in questa storia qualcosa su di me, l’unica persona che conosce bene, giusto come utensile. Era un’epoca di fango e stupore, tutti uguali e tutti con le gambe graffiate e la faccia piena di schiaffi. Mentre noi eravamo liberati, a Milano c’erano ancora i tedeschi e i fascisti ma intanto la produzione bellica della Germania nazista malgrado i bombardamenti a tappeto era al suo massimo. La Germania non smetteva di raddoppiare la produzione industriale anche grazie a milioni di schiavi, ma non aveva più uomini da mandare al fronte. Aveva soltanto macchine, la Germania. Inglesi e americani decisero di colpire il morale dei tedeschi prendendo una cittadina d’arte priva di valore militare (salvo qualche fabbrica di munizioni leggere) e di annientarla con tutti i suoi abitanti. Quella città era Dresda e ci furono tre passaggi aerei, uno inglese, uno americano e poi un altro misto che scoperchiarono al primo passaggio i tetti delle case, poi le accesero di fuochi inestinguibili e infine portarono la città alla temperatura di tremila gradi per cui in trentacinquemila morirono liquefacendosi in una melma verdastra. Il capo dell’aviazione militare inglese fu accusato di genocidio e il ministro della propaganda di Hitler disse che gli alleati erano dei mostri. Gli americani bombardarono Tokio che era una città di carta e legno e fecero molti più morti che con le bombe atomiche.
Intanto, a milioni erano morti nelle fosse, nei forni, nella fame e nel cannibalismo, assassinati in gruppi, orde, camion, plotoni, sul ciglio del baratro e della calce. La notizia delle bombe atomiche era allora incomprensibile ma associata all’idea di fine del mondo. Sotto le nostre finestre in via Monte della Farina, di notte sparavano perché c’erano quelli del Gobbo del Quarticciolo che si scontravano con la polizia, o così mi dicevano. Gli americani per noi si chiamavano tutti Johnson, romanizzato Giònzon. Sul motivo di “parapaponzi-ponzi-po’” si cantava la strofetta: “Cosa fanno gli alleati? Sempre sbronzi-sbronzi, so’ ”. C’erano pochi sciuscià, shoe-shine, che lucidavano le scarpe ma ne vidi molti di più l’anno successivo a Napoli dove De Sica fece il film sugli scugnizzi, che eravamo tutti noi piccoli sopravvissuti.
Si fucilava molto. A Forte Bravetta ogni giorno un plotone della polizia penitenziaria fucilava qualcuno legato sulla sedia, sulla schiena e colpo di grazia alla nuca. Si fucilavano i fascisti. Divisi su tutto, ma in posizione di tregua transitoria i democristiani e i social-comunisti (si diceva così perché Pietro Nenni era alleato del Pci di Togliatti ed ebbe anche il premio Stalin che poi riconsegnò). A casa mia si comprava il Messaggero e vedevo in prima pagina questi fucilati e facevano una morbosa impressione. Hitler era diventato un mostriciattolo rattrappito nel suo cappotto e distribuiva buffetti ai ragazzini della Hitler Jugend che morivano contro i russi che stavano già entrando a Berlino. Diceva a tutti che stava per uccidersi e raccomandava di consegnarsi agli angloamericani ed evitare i russi. Poi si sparò, sparò a sua moglie e si fece dar fuoco accuratamente in una buca del terreno scavata apposta. Mussolini intanto passava le sue ultime giornate e diceva che avrebbe preferito l’arrivo dei russi agli americani perché gli italiani meritavano una buona lezione.
Quando i comunisti lo presero prigioniero e poi lo fucilarono senza far chiasso mandando un gruppetto dei loro ad ammazzare sia lui che Claretta Petacci, si dice che Pietro Nenni, che era stato in gioventù un compagno di cella di Mussolini e che provava per lui sentimenti misti, si infuriò per il colpo di mano e poi dettò il titolo d’apertura dell’Avanti! il giornale dei socialisti di cui nel 1914 lo stesso Mussolini era stato direttore prima di essere espulso. Il titolo era: “Giustizia è fatta!”. A giugno dettero l’incarico di formare un governo a Ferruccio Parri, capo partigiano di Giustizia e Libertà che resse una coalizione piena di speranze ma con pochi mezzi che durò meno di sei mesi. Molti anni dopo lo andai a trovare e viveva con la moglie nel casermone sulla via Cristoforo Colombo per deputati e senatori, una specie di sarcofago.
Non ricordo come si chiamava la moglie, una signora deliziosa che mi volle a tutti i costi far provare la macchina da cucire a pedali con cui aveva fatto l’orlo ai fazzoletti tricolori per i partigiani di GL mentre lui, Ferruccio, se ne stava seduto sul divano un po’ triste e poco incline ai ricordi. Un galantuomo di compromesso. La vera guerra sarebbe scoppiata di lì a poco fra filoamericani di De Gasperi e filorussi di Togliatti. Sui muri si vedevano manifesti di Stalin dipinto come un orco o come un santo e comparivano scritte entusiaste e sgrammaticate, come “Ataveni” che stava per: “Ha da venire”, sottinteso, Baffone”. Nessuno lo chiamava Stalin. Solo Baffone. E quei baffi erano un segno grafico di una potenza di cui non ricordo l’uguale, tanto che quando Baffone morì otto anni dopo, ricordo perfettamente dove ero, perché Baffone era il segno del tempo e di un mondo terribile e irripetibile, ma che allora era vivo benché fosse morto.
1 – Continua
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