L’udienza preliminare è un punto d’osservazione privilegiato a questo riguardo. Durante il percorso processuale si tratta della prima occasione di confronto dialettico ad armi pari tra accusa e difesa, quest’ultima finalmente a piena conoscenza dei risultati investigativi. Luogo ideale per decisioni ponderate, prese a ragion veduta, senza più l’alibi dell’asimmetria che connota la precedente fase delle indagini, dominata dall’urgenza di provvedere sulla base degli atti presentati dal pubblico ministero a sostegno delle proprie richieste.

Ciò nonostante, la tendenza del giudice dell’udienza preliminare è di convocare gli imputati al dibattimento nella quasi totalità dei casi, mentre la sentenza alternativa di non luogo a procedere viene emessa con percentuali infime. Niente lascia presagire, d’altronde, che dia prestazioni migliori lo sgorbio dell’udienza predibattimen tale, ora introdotta nei processi a citazione diretta davanti al tribunale monocratico. Può darsi che il pubblico ministero sia infallibile o talmente oculato da agire solo se il quadro delle indagini si dimostra completo e schiacciante a carico dell’imputato.

Né possiamo escludere che, dietro le statistiche deludenti, si nasconda prosaicamente la pigrizia del giudice passacarte o l’ansia di sgravarsi dai ruoli ingombri di affari penali, ripiegando sul provvedimento di rinvio a giudizio poiché non occorre motivarlo. Fino a ieri s’è potuto spiegare il fenomeno con la vigenza d’un criterio decisorio che vincolava alla progressione processuale quando il successivo dibattimento non si annunciasse superfluo al fine di superare eventuali dubbi circa la fondatezza dell’accusa. Se – come pare – la situazione rimarrà invariata malgrado le novità normative sopravvenute, avremo l’ennesima conferma di come la separazione delle carriere sia condizione necessaria (benché non sufficiente) per restituire ai giudici un’autentica cultura della giurisdizione.

L’interpretazione

Difatti, la regola recentemente introdotta dal legislatore andrebbe intesa nel senso che l’imputato sia da prosciogliere ogni qual volta la prova della colpevolezza risulti, allo stato dell’udienza preliminare, insufficiente o contraddittoria. Se il pubblico ministero non è riuscito a dissipare i dubbi, profittando dell’ampia durata delle indagini e degli enormi poteri di cui dispone, la parte più debole del processo va allora salvaguardata da ulteriori patimenti. Non è prevedibile alcuna futura condanna in situazioni del genere, poiché, se si transitasse al dibattimento, il compendio istruttorio a sostegno dell’accusa non uscirebbe ragionevolmente consolidato, ma, per logica intrinseca alla struttura processuale accusatoria, più probabilmente indebolito grazie alle maggiori chances per la difesa di incidere a proprio favore sull’attività di accertamento penale tramite l’esercizio del diritto al contraddittorio nella formazione della prova.

La strada verso l’esito punitivo

Questo, almeno, se ci convinceremo che la regola di giudizio appena istituita operi in funzione di garanzia per l’imputato; che sia, cioè, venuto il momento di lasciarsi alle spalle la tediosa immagine dell’udienza preliminare quale filtro alle imputazioni arrischiate, solo orientato al risparmio di tempo e risorse. Qualunque smania efficientista da giustizia manageriale, in sé nociva, è destinata appunto a scontrarsi con la cultura di molti magistrati, per i quali misura della produttività è la capacità, se non di condannare immancabilmente, di tenere comunque aperta la strada verso l’esito punitivo. E bisogna purtroppo constatare che sono innumerevoli i segnali di incoraggiamento in quella direzione mandati al giudice dallo stesso legislatore, a sua volta succube d’una giurisprudenza piuttosto lontana dalla cultura della giurisdizione: un circolo vizioso che ha portato a concepire l’udienza preliminare come fase utile al perfezionamento dell’accusa, dove il giudice soccorre il pubblico ministero riparandone gli errori, anziché dichiarare la nullità dell’atto di imputazione in ossequio alle forme, vera garanzia di equidistanza tra le parti. L’udienza preliminare andrebbe al contrario considerata alla stregua di uno scudo, che si frappone ai colpi dell’autorità proteggendo l’individuo presunto innocente dai rischi della contesa dibattimentale, dall’alea della condanna, dal carico di sofferenza che deriva dall’ulteriore protrarsi del processo dopo la soggezione alla lunga, penosa attività di indagine. Difficile che un’idea del genere si radichi nella coscienza dei giudici, se manterranno l’unità d’ordinamento con i pubblici ministeri. Molto difficile.

Daniele Negri

Autore

Professore ordinario di diritto processuale penale