a Tutto Campo
Propositi per il nuovo anno calcistico
La serie A riparte, obiettivo sostenibilità e trasparenza grazie ai “padroni del vapore”: in 16 anni persi 8,5 miliardi
I club europei hanno lasciato da parte il mecenatismo e adesso puntano sugli investimenti in competenza e professionalità. Mentre in Italia siamo rimasti ancorati ai vecchi retaggi
La sacralità del riposo ferragostano da anni ormai è stata sacrificata sull’altare dei folli calendari calcistici ed allora, a un mese dalla finale di Euro 2024 a Berlino, riprende la Serie A. I tifosi vengono così richiamati a riempire gli stadi da un’edizione numero 123 che sarà soprattutto la più straniera di sempre, visto che la metà delle proprietà dei club fa riferimento a investitori o fondi esteri. Dagli Stati Uniti, per lo più: Inter, Milan, Atalanta, Roma, Fiorentina, Genoa, Parma, Venezia a cui aggiungere i proprietari indonesiani del Como e il presidente canadese del Bologna. A fare la differenza, certo, sono le 3 squadre su 3 promosse dalla Serie B con proprietà straniere, il che ci dice soprattutto un’altra cosa: il fenomeno è in crescita e molti fondi hanno come strategia quello di partire dal basso per poi conquistare il vertice. Ed infatti si contano numerose proprietà straniere anche in B e C.
In 16 anni persi 8,5 miliardi
Cosa aspettarsi nello sport nazionale dal capitalismo a stelle e strisce? Per ora non ci sono state, dal punto di vista collettivo, novità rilevanti. La vera svolta sarebbe se questi investitori facessero cartello ed iniziassero a darsi delle linee guida imprenditoriali per gestire il nostro calcio imponendole nel sistema. Ai tifosi non piace molto pensare che i loro club siano in mano a gente che a fine anno ha tra le priorità quella di chiudere in utile, migliorare i conti, rendere magari il club eventualmente rivendibile. Ma la sostenibilità anche economica nello sport moderno deve essere affermata quotidianamente come obiettivo e come valore. Recentemente il ReportCalcio, il rapporto annuale sul calcio italiano e internazionale sviluppato dal Centro Studi Figc in collaborazione con Arel (Agenzia di Ricerche e Legislazione) e PwC Italia ha calcolato che la perdita registrata negli ultimi 16 anni ha raggiunto gli 8,5 miliardi di euro.
La mazzata Covid e l’esempio Germania
Significativo l’impatto delle 3 stagioni segnate dal Covid-19 (’19-’20, ’20-’21 e ’21-’22), in cui il “rosso” totale ammontava a 3,6 miliardi (il 42%). Ma sottolineiamo questo dato soprattutto perché non sia un alibi. Anni fa in un magistrale saggio sul calcio italiano come settore industriale il professor Nicola de Ianni (Università Federico II di Napoli) documentava come l’industria calcistica in Italia sia in perdita endemica sin dagli albori e come la crescita dei fatturati abbia generato sempre più perdite. Questa cosa non è più accettabile oggi e non ci sono scuse che tornano. Nel calcio come nelle cose più importanti spesso si giustificano queste perdite con il fatto che la competitività si gioca a livello internazionale, che i club devono competere con quelli europei. Ma la Germania ad esempio un anno fa chiuse i bilanci con 40 milioni di utili aggregati, mentre la Serie A con 400 di perdite; i risultati sul campo non sono troppo diversi tra noi e loro, soprattutto se parametrati con la salute economica dei club.
Calcio quarta industria “panzana pazzesca”
Speriamo pure di non risentire più la storia spesso evocata da dirigenti e politici del calcio italiano come quarta industria del paese: semplicemente falso. Il sito di fact checking Pagella Politica già anni fa (prima del Covid) smontò questa cosa bollandola come “panzana pazzesca” (parole loro) elencando almeno dieci attività produttive che facevano fatturati 10 volte superiori al calcio: agricoltura, tessile, carta, plastica, metallurgia, servizi finanziari, telecomunicazioni, costruzioni, mobili tra i maggiori. Imparagonabile pure il numero degli addetti, ma soprattutto inaccettabile questa perdita continua. Quando qualcuno accetta di perdere soldi sistematicamente in una attività il segnale non è mai buono, significa che viene ripagato in gloria personale o favori politici, ovvero tutte cose che mancano di trasparenza e conducono in varie forme a business poco sani. Quando all’incirca dal 2000 gli altri in Europa hanno cambiato passo, noi siamo rimasti ancorati a vecchi retaggi, al mecenatismo e ad un modello che fatica a vedere nell’investimento in professionalità e competenze la leva per migliorare.
L’arretratezza calcistica dell’Italia
Ci sono stati i soldi delle tv, ma li abbiamo sperperati. Non abbiamo mai rinnovato gli impianti, ma qui magari ci torneremo per non cadere nel solito dogma degli stadi di proprietà. Preferiamo continuare a spendere sul mercato finendo spesso fuori giri. Dopodiché siamo italiani, quindi bravissimi ad adattarci, ed allora nell’anno che verrà ripartiremo – a testimonianza di una qualità media delle nostre squadre che rimane alta se paragonata a quella degli altri paesi – al secondo posto nel ranking Uefa dietro all’Inghilterra, dopo aver sopravanzato i club spagnoli che per la prima volta dal 1997 partiranno dal terzo posto. È il risultato di due stagioni in cui i nostri club hanno brillato in Europa: non abbiamo ammiraglie, ma il livello medio è alto. Da quest’anno cambia la musica: non ci saranno più le retrocessioni nella seconda coppa a garantirci un buon bottino di punti aggiuntivi, e a giugno potremmo trovarci ad analizzare un’altra realtà.
Gli stadi tornano affollati
Tutto da buttare allora? No, la Serie A può ripartire dalla passione della gente, che non è solo una frase fatta ma anche un fatto dimostrabile con i dati. Dopo anni passati a dire che le televisioni stavano colonizzando il calcio, con il Covid abbiamo sperimentato i campionati a porte chiuse, ma invece di dare il colpo di grazia l’effetto è stato inverso, forse anche grazie al fatto che negli ultimi 5 anni nessuno ha vinto il campionato due volte di fila e 4 squadre diverse sono diventate campioni d’Italia. Ed ecco che lo scorso anno la media a partita negli stadi di Serie A è stata di 30.967 spettatori, un aumento del 21,5% rispetto all’ultimo anno intero pre-Covid (18-19) che ne fece registrare 25.481. Negli ultimi 20 anni la media era più vicina ai 20 che ai 30 mila, l’ultima volta che si ottenne un risultato oltre i 30 mila (30.025) era il 1999/2000. Siamo lontani dai dati del 1984/85 quando (secondo il sito Stadiapostcards) le presenze medie sfioravano le 39mila (38.959). Senza dubbio possiamo dire che è servita una intera generazione di tifosi (quasi 20 anni) per riprenderci dai 19.307 di media del 2006/07, l’anno post Calciopoli.
Oggi comunque vanno allo stadio soprattutto i tifosi più caldi, mentre chi gode di una tiepida o occasionale passione trova anche alternative. Un po’ come accade nello sport praticato, in generale, dove le ultime due edizioni post Covid delle Olimpiadi ci hanno portato un numero di medaglie mai visto prima ed in discipline sempre più varie, spiegandoci così che la pratica sportiva in Italia è materia complessa di cui il calcio (che pure rimane lo sport più praticato) è solo parzialmente testimone, e di certo non (non più?) un termometro affidabile. Ed allora non ci resta che affidarci ai nuovi “padroni del vapore” come li chiamava il Guerin Sportivo anni fa: imprenditori e fondi stranieri arrivati per arricchirsi, certo, ma che si spera portino una idea diversa di sport capace di far svoltare il nostro calcio su un terreno in cui la sostenibilità (e quindi bilanci in ordine, utili, investimenti infrastrutturali) diventi un obiettivo reale e non solo un esercizio retorico. Siamo solo all’inizio: buon campionato a tutti, ci sarà tempo per tornare sui tanti temi macroeconomici del nostro calcio che, puntuali come ogni stagione, torneranno alla nostra attenzione.
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