Non finisce più la lista delle persone salite sul banco degli imputati (e già condannate dai giornali) che sono state assolte solo negli ultimi giorni. Mannino, De Girolamo, Diana, Tallini (a cui il tribunale di sorveglianza ha levato la custodia cautelare). Ora si aggiunge anche la sindaca di Roma Virginia Raggi assolta in Appello dall’accusa di falso per la nomina di Marra. Siamo uno dei pochi giornali a non avere sparato contro di lei per le questioni giudiziarie. Non lo facciamo con nessuno, mai. Nemici, amici, sconosciuti. Si chiama garantismo. E non solo. Ma proprio perché offriamo lo stesso trattamento a tutti, non possiamo non notare come nei confronti di Raggi sono stati usati due pesi e due misure.

De Girolamo, giusto per fare un esempio di politica devastata dal potere della giustizia, al primo avviso di garanzia si è dimessa da ministra, mentre la prima cittadina capitolina non si è mossa di un millimetro. Giusto. Ha fatto bene. Peccato che quello che ha fatto lei, non valga, secondo i grillini, per tutti gli altri. Il movimento Cinque stelle, di cui Raggi al momento rappresenta l’anima più integralista in alleanza con Di Battista, è quello che spara a zero su chiunque venga accusato, in barba al principio di presunzione di non colpevolezza. Così se De Girolamo, una volta assolta, si è vista dedicare qualche trafiletto qui e lì, dopo una campagna mediatica devastante, Virginia Raggi domenica ha conquistato la prima pagina del Fatto quotidiano. Per lei non valgono le stesse regole che vengono applicate dai grillini agli altri politici.

Lei è unta dal signore, gli altri sono figli del diavolo. Qualcuno si chiedeva se la prima pagina del giornale diretto da Travaglio fosse un cambio di linea editoriale: un passaggio dal giustizialismo al rispetto della Costituzione. La domanda era (speriamo) ironica. Non c’è nessun cambiamento di linea. La stessa santificazione avvenuta nei confronti della sindaca di Roma è il rovescio della medaglia giustizialista. Se sei 5 stelle e sei supportato dal potere della magistratura, tutto viene messo da parte. Anche il giudizio politico. Adesso che Virginia Raggi è stata assolta, si ragiona di nuovo sulla sua candidatura. Come se il problema non fosse politico. Ma di fedina penale. Non conta come ha governato in questi anni, che idee ha proposto, che soluzioni ha trovato per una città sommersa dalla spazzatura e dove non funziona nulla. Conta il fatto che abbia la benedizione della magistratura.

Anche questa santificazione di Raggi è parte di quel processo, purtroppo inarrestabile, che rende la politica una succursale delle procure. Ma se si dovesse scegliere il piano reale del governo della città la musica sarebbe di tutt’altro tipo e santa Virginia diventerebbe il diavolo che tutti i romani vogliono cacciare. Non si capisce infatti in che modo la sua assoluzione possa creare dei problemi al Pd. La domanda da farsi è una sola: ha governato bene, sì o no? Si pensa di poter fare un’alleanza con lei e con i 5 stelle su Roma? Il problema è dunque tutto politico, come politico è l’imbarazzo del Pd. I dem a livello di governo nazionale hanno scelto di stringere un patto indissolubile con il movimento Cinque stelle. A tal punto che davanti alla possibilità che cada il governo il ministro della Cultura Dario Franceschini, ieri sul Corriere della sera, annunciava che si andrebbe al voto avendo come candidato premier proprio l’avvocato del popolo, Giuseppe Conte, da “giocarsi” contro Matteo Salvini. Lo stesso Salvini con cui Conte ha a sua volta governato. Stesso discorso che chiaramente il Pd non può fare anche su Roma, dove lo sfascio creato da questa giunta è impossibile da negare, facendo finta che vada tutto bene.

Da una parte la questione giudiziaria e dell’altra quella politica sono strettamente connesse. Il Pd continua a mettere tra parentesi il giustizialismo rappresentato dal movimento Cinque stelle, un giustizialismo peraltro – come abbiamo visto per la tolleranza dimostrata nei confronti di Raggi – che si muove su due binari diversi. Gli amici e i nemici. Sottovalutare la portata della cultura manettara che i grillini rappresentano significa non aver ben capito che cosa sia accaduto in questi anni nel Paese sia sul fronte del rapporto tra giustizia e politica, sia sul fronte del populismo, cioè la ricaduta che quel rapporto ha avuto sulla vita istituzionale e sociale del Paese. Le difficoltà su Roma ad accettare la candidatura di Calenda e la subalternità a Conte a livello nazionale non solo nascondono l’incapacità a individuare e a proporre una propria leadership, ma una questione più strategica: la mancanza di una sinistra culturalmente capace di distanziarsi da una visione così becera della democrazia, del Parlamento e del governo.

Alcuni leader dem continuano a far credere che l’alleanza con i 5 stelle (o almeno con quelli che ci stanno) sia determinata da una scelta tattica: la possibilità di arginare il movimento e ciò che ha rappresentato nel dare voce alla rabbia delle persone. Ma non è così. È il segno di una crisi del Pd che ancora fatica a ritrovare una propria strada. Vale per Roma dove Virginia Raggi andava scaricata, prima dell’assoluzione, non perché accusata e condannata in primo grado, ma perché incapace. Vale per Conte: non può essere il leader del Pd un premier figlio del peggiore populismo.

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