Due affermazioni, tra le molte del Giorno della Memoria, colpiscono particolarmente. La prima: “La Shoah è una tragedia che non ha paragoni nella storia”. La seconda: “Non bisogna chiudere la Shoah in una cassaforte identitaria, perché certe catastrofi umanitarie si somigliano tutte”. Nulla di nuovo, si dirà. Dopotutto, sono anni che la ricorrenza del 27 gennaio vede opinioni differenti e spesso contrapposte. Ma quel che colpisce sono gli autori, anzi le autrici, delle citazioni. La prima è Giorgia Meloni, presidente del consiglio italiano proveniente dalla storia della destra neofascista. La seconda è Anna Foa, storica di lunga data e di solido pedigree, esponente della sinistra ebraica nostrana. E la cosa singolare è che, mentre Meloni insiste sulla unicità dello sterminio nazista, Foa lo relativizza radicalmente.

Olocausto oltre i ‘tanti genocidi’

Ma collocare l’Olocausto nel grande inferno dei razzismi, delle guerre, dele vittime civili dei conflitti, dei “tanti genocidi” (Foa) appare, proprio oggi, a dir poco fuorviante. Se l’assemblea generale dell’ONU decise nel 2005 di dedicare alla Shoah un Giorno della Memoria, è perché si tratta di un evento unico, mai accaduto prima, mai accaduto altrove. Perché la Shoah si spiega – e accadde – soltanto all’interno di uno specifico contesto di spazio e di tempo. Come sanno gli storici. Non si capirebbe il genocidio degli ebrei europei se non si conoscesse la Germania degli anni Venti-Quaranta.

Lo sterminio fenomeno culturale

Lo sterminio fu infatti una potente macchina politica, legata perciò ai caratteri politici e alle dinamiche politiche di quel paese, legata alla qualità delle sue istituzioni pubbliche e delle sue amministrazioni, legata ai caratteri della sua classe dirigente e alle modalità della sua formazione. E fu, non di meno, un fenomeno culturale. Si è molto discusso, anzitutto nella Germania postnazista, intorno al problema della responsabilità collettiva. Ma una cosa è certa. Il piano di deprivazione civile e materiale e infine di eliminazione fisica delle minoranze ebraiche nel Terzo Reich e in Europa non avrebbe mai potuto realizzarsi senza il silenzio o l’acquiescenza o l’approvazione o la partecipazione attiva di una popolazione germanica che, fra tedeschi e austriaci, contava nel 1940 oltre settanta milioni di abitanti.

Si sa che a Berlino la persecuzione degli ebrei – dai negozianti ai medici, dai banchieri agli artisti – era sotto gli occhi di tutti. E però non vi fu alcuna reazione significativa. Stiamo parlando di una grande, colta, potente metropoli. I berlinesi avevano la radio e l’automobile, amavano i film di Hollywood, ascoltavano il jazz, ballavano lo swing, bevevano Coca Cola. Ma il progetto di rendere “judenfrei” la capitale del Reich piaceva a molti. Il 9 novembre 1938, nella famigerata Notte dei Cristalli, prima ancora dei nazisti in divisa, a Berlino entrarono in azione gruppi di cittadini qualunque, che picchiarono gli ebrei incontrati casualmente per strada e razziarono le loro case e i loro negozi.

Olocausto unico e irripetibile

Come nella civilissima Vienna, d’altronde, dove in quel medesimo 1938 la gente comune prese a occupare a decine di migliaia gli appartamenti degli ebrei, inventando un’efficace risposta alla crisi degli alloggi, o, più modestamente, si dedicò al saccheggio, rubando gioielli, denaro, pellicce, tappeti, mobili. Una violenza di massa che certe volte fu ritenuta eccessiva dagli stessi nazisti.
Sono questi accadimenti storici che rendono unico e irripetibile l’Olocausto. Unici e irripetibili i contesti politici, sociali e culturali dell’Europa germanofona (al di là delle sofferenze del primo dopoguerra, delle piaghe di Versailles o delle crisi economiche, le quali, notoriamente, non colpirono soltanto tedeschi e austriaci). E unico il terreno su cui le politiche naziste poterono coltivare e realizzare i loro progetti, il terreno al quale quelle società e quelle comunità civili finirono per dare il proprio consenso. Quel terreno si chiama antisemitismo. Qualunque strage accada a Gaza o in Ucraina o sia accaduta ad Aleppo o a Mosul, avvicinarla all’esperienza della Shoah non ha alcun senso. O, peggio, è un modo, magari inconsapevole, di rendersi strumenti di coloro che oggi resuscitano con successo il fiume carsico dell’antisemitismo per trovare alleati alle proprie battaglie.