L’alleanza tra M5S e Partito democratico
La sinistra italiana senza leader e orfana di una visione
Si prefigura una leadership populista che è il contrario delle ragioni per cui è nato il Pd che invece deve compiere un atto di coraggio

Il problema principale del centrosinistra non è il “ttttraffffico”, come dice il grande Paolo Bonacelli riferito a Palermo nel film Johnny Stecchino, bensì l’assenza di una leadership. O meglio il prefigurarsi di una leadership populista che è il contrario delle ragioni per cui è nato il Pd. Il fatto stesso che (per il veto del capo del M5S, il CamaleConte, come lo definì il compianto Mario Tronti) non si possa usare il termine centrosinistra per definire una coalizione che si dovrebbe opporre alla maggioranza che orgogliosamente si definisce di destra-centro la dice lunga sullo stato disastroso del “campo” (Largo? Stretto? Giusto?). Non parlo solo dell’assenza di un leader, ma di una classe dirigente diffusa, radicata, selezionata non attraverso la fedeltà ai capi bensì – ha ragione Marco Bentivogli che ne ha scritto qui – grazie al consenso ottenuto attraverso una prassi di democrazia interna ai partiti come prevede la costituzione e come nessuno fa.
Agli attuali dirigenti della sinistra italiana mancano le tre principali qualità della leadership: il coraggio; l’accountability, ovvero la coscienza della necessità di rendere conto del proprio operato; la visione.
Tutte le attuali discussioni sarebbero state vane e il Pd avrebbe potuto probabilmente vincere le elezioni se il candidato naturale, il lucano Roberto Speranza, ex-ministro della salute del governo giallorosso, avesse scelto di candidarsi, ma invece ha rifiutato non per scarsa generosità, ha spiegato, ma perché è ancora sotto scorta per le minacce dei no-vax. Non mi permetto di discutere una tale motivazione però è un peccato perché agli elettori piace il coraggio della sfida e un vero leader nasce, come amavano dire i vecchi dirigenti comunisti, dal “duro cimento” con la realtà.
In ogni caso non sarebbe il primo dirigente del centrosinistra a sottrarsi al confronto con il territorio. Perché sono incapaci di concepire il proprio agire politico in base al principio dell’accountability, che certamente riguarda l’intero sistema politico ma alla quale gli elettori di sinistra, meno fideistici di quelli di destra, sono più attenti e il fatto che i dirigenti non si candidino nei loro collegi naturali perché più incerti di quelli blindati a loro non piace per nulla.
Infine, manca la visione di dove si vuole portare il paese. Si inventano hastag, si promuovono campagne, si susseguono slogan, ma non c’è uno straccio di programma comune né di coesione politica. Dinnanzi a uno scenario mondiale drammatico, che vede le dittature sfidare le democrazie e l’imperialismo russo minacciare l’Europa con l’invasione dell’Ucraina, un governo del campo confuso starebbe con Putin o con Zelensky?
Conosco già l’obiezione che le recenti esternazioni di Matteo Salvini a favore di Putin sembrano avvalorare: anche il governo è spaccato su questo. Ma si tratta di un’illusione ottica: al momento del voto i voti della Lega non sono mancati e non mancheranno e non solo per bramosia di potere: il destra-centro sta insieme da trent’anni esatti e, malgrado in talune circostanze (governo gialloverde, governo Draghi), abbia avuto diverse collocazioni rispetto al governo, alle elezioni politiche si è sempre presentato unito.
Sono tre le ragioni di fondo: i valori dei loro elettori – che a me non piacciono affatto – sono del tutto simili sulle questioni principali; i leader assomigliano ai loro elettori; infine, ma è la ragione più importante, hanno sempre avuto un leader capace di tenere tutti insieme: più rivolto al centro Silvio Berlusconi, più a destra Giorgia Meloni.
Nell’altro campo tale mancanza di una visione nasce dal fatto che il principale alleato del Pd è nato contro il Pd e quindi concepisce l’alleanza solo se la guida lui, come avvenuto nel governo giallorosso o in Sardegna… Del resto, basta ricordare quanto un CamaleConte allo stato nascente pensasse della politica, delle differenze tra destra e sinistra, della democrazia rappresentativa nel suo discorso all’insediamento del governo con Salvini. Non si tratta di una frase sfuggita, ma di un’idea di sé e della politica, mai smentita in seguito.
Ancora un po’ timido, l’attuale capo del M5S si presentava come l’uomo nuovo, fuori dal sistema: “Com’e noto, non ho pregresse esperienze politiche. Sono un cittadino che, in virtù dell’esperienza di studio e professionale maturata, si è dichiarato disponibile, nel corso della campagna elettorale, ad assumere eventuali responsabilità di Governo con una delle due forze politiche e successivamente ad accettare l’incarico di formare e dirigere il Governo, rendendosi anche garante dell’attuazione del contratto per il Governo del cambiamento”. Questa esplicita rivendicazione si fonda sull’idea che le vecchie distinzioni tra destra e sinistra non siano più valide:” Non esistono più forze politiche che esprimono come un tempo complessive visioni del mondo, che ispirano la loro azione – vale a dire – in base a sistemi ideologici perfettamente identificabili” affermava allora Conte. E infatti gli arrivò subito l’amicizia ben accettata e mai messa in discussione del capo della destra più pericolosa del mondo, Donald Trump che lo chiamava “Il caro Giuseppi”.
Ed ecco il passaggio chiave che definisce con chiarezza e rivendica con orgoglio la natura populista del governo e della sua nascente leadership: “Come già̀ ho avuto modo di anticipare, mi propongo a voi e, attraverso voi, ai cittadini come l’avvocato che tutelerà̀ l’interesse dell’intero popolo italiano… Le forze politiche che integrano la maggioranza di Governo sono state accusate di essere populiste, antisistema. Bene, sono formule linguistiche che ciascuno e libero di declinare. Se populismo è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente – e qui traggo ispirazione dalle riflessioni di Dostoevskij, nelle pagine di «Puškin» – se antisistema significa mirare a introdurre un nuovo sistema che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere, ebbene, queste forze politiche meritano entrambe queste qualificazioni”.
Siamo nell’era del ciarlatano, come ammoniva Greta De Francesco negli anni ’30. Non ne usciremo senza un atto di coraggio che oggi può compiere solo il Pd. Il coraggio della momentanea solitudine spesso è più portatore di futuro della rassegnata subalternità a una leadership populista che più domina e più allontana ogni possibilità di sconfiggere la destra perché buona parte degli elettori del M5S non vota mai per i candidati del Pd mentre la presenza dei populisti in funzione dominante fa fuggire gli elettori più moderati. Esercitare un ruolo, proporre una propria visione, costruire una classe dirigente radicata e autorevole paga anche in termini elettorali. Le alleanze verranno di conseguenza.
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