Nell’immaginario di una persona che si definisce di sinistra, la pace non è solo un obiettivo politico o un’aspirazione etica, ma un principio di fondo, inscindibile dalle idee di giustizia, uguaglianza e progresso di cui la sinistra si autonominò levatrice molto tempo fa.

Il legame tra pace e sinistra parte da lontano. Affonda le sue radici nel rifiuto del nazionalismo bellico e delle guerre tra i popoli, cui nel XIX secolo Marx ed Engels contrapponevano l’internazionalismo delle classi subalterne (dal Manifesto del Partito Comunista: “Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno”), sostenendo che la lotta principale fosse tra le classi, non tra le nazioni; nel rifiuto del militarismo, considerato come strumento della classe dominante, al servizio di interessi economici delle élites capitaliste e non di un effettivo conflitto tra i popoli; nell’idea della fratellanza universale, che accomunava sia il socialismo utopistico che quello scientifico. Di qui la solidarietà internazionale come condizione necessaria per il superamento dei conflitti armati. E la pace come valore fondante e “di classe”, al contrario della guerra, strumento del dominio borghese sulle nazioni.

La spaccatura

Dal Manifesto di Marx ed Engels tantissima acqua è passata sotto i ponti, con il fallimento globale e conclamato della sua ideologia, in tutti gli aspetti. Tranne che in quello relativo alla fascinazione melliflua e perversa del concetto di pace, che ha segnato la storia (e le divisioni) della sinistra lungo tutto il XX secolo. A partire da quel momento topico, ed emblematico, che fu la spaccatura drammatica alla vigilia della Prima guerra mondiale, quando i socialisti rivoluzionari denunciarono come traditori i riformisti che (in Francia, in Germania, in Inghilterra: pensate a oggi, e a come ritorna la storia…) approvarono i finanziamenti bellici, mentre in Italia i socialisti scelsero la strada pusillanime del “né aderire né sabotare” (e anche qui i conti con l’oggi tornano abbastanza).

Conclusa la parentesi del fascismo, la bandiera della pace fu saldamente presa nelle mani dai nemici dichiarati dell’Occidente, attraverso il Movimento dei Partigiani della Pace, organizzazione internazionale nata a Mosca nel 1949, durante la Guerra Fredda, con la missione di promuovere la pace e il disarmo, cui aderirono intellettuali e scienziati di fama mondiale (Éluard, Aragon, Brecht, Neruda ecc), il cui simbolo celeberrimo diventò la colomba disegnata da Pablo Picasso. Inutile dire che il Movimento, promosso in Italia dalla capillare organizzazione del PCI, con l’adesione di intellettuali come Guttuso, Vittorini, Levi, si occupava solo di criticare l’Occidente e la NATO e sosteneva le posizioni dell’URSS su tutti i principali temi all’ordine del giorno nei rapporti internazionali.

Morì il movimento, non il pacifismo

Con i primi segnali di crisi del blocco sovietico, a cominciare dal 1956, il Movimento perse credibilità e si dissolse progressivamente. Ma non morì il pacifismo, che in Italia era penetrato nel mondo cattolico con Aldo Capitini e la marcia Perugia-Assisi (la prima nel 1961), e poi esplose nella stagione sessantottina, quando qualunque movimento rivoluzionario sorgesse nel mondo, generalmente sponsorizzato dall’URSS, riempiva le piazze occidentali di slogan osannanti: dal Vietnam alla Corea a Cuba alla Cambogia al Laos. Naturalmente era pacifismo a senso unico, perché nei cortei si predicava la pace, ma si giustificava – anzi si esaltava – l’uso delle armi se si trattava di liberarsi dal dominio degli Stati Uniti, nazione-gendarme del mondo libero.

Questa visione del tutto unilaterale della pace non scomparve neppure con gli anni’80, quando la NATO decise di installare missili nucleari a medio raggio in Europa occidentale (Pershing II e Cruise) per rispondere al dispiegamento dei missili SS-20 sovietici, e il PCI promosse poderose proteste contro la decisione, culminate in grandi manifestazioni contro gli euromissili. Sempre contro gli USA. Sempre a sostegno dell’URSS morente. E questo pochissimi anni dopo la famosa intervista del 1976, in cui Berlinguer aveva dichiarato di “sentirsi più sicuro sotto l’ombrello NATO”. Affermazione evidentemente solo “acchiappavoti”, in un momento nel quale pareva avvicinarsi per la sinistra una prospettiva di governo, e ampiamente smentita dal profilo che il PCI assunse dopo la fine della solidarietà nazionale, fino al suo scioglimento e oltre, quando a sinistra un pacifismo sempre più pervasivo andò a mescolarsi con le nuove istanze ecologiste e femministe.

Il pacifismo nel nuovo secolo

Anche l’89, con il crollo del comunismo e la fine del mondo bipolare, non poté niente contro l’antioccidentalismo “strutturale” del pacifismo, che nel nuovo secolo si accende prima contro gli “interventi umanitari” e poi, soprattutto, contro la Guerra al Terrore avviata in Medio Oriente dagli USA dopo l’11 settembre, costruendo forse il punto più alto della sua mobilitazione agli inizi della guerra in Iraq, quando denuncia – giustamente – le falsità sulle armi di distruzione di massa, e tuona contro il carattere neocoloniale dell’invasione statunitense. Ma è soprattutto nell’associazione con i movimenti no-global, la lotta al cosiddetto neoliberismo e la centralità della questione ambientale che, negli anni a seguire, il pacifismo contemporaneo trova il suo ubi consistam. Diventando uno slavato, diffusissimo e inebriante succedaneo dell’anticapitalismo, generando crescenti sensi di colpa nelle classi dirigenti liberali e fornendo alla declinante sinistra tradizionale nuovi argomenti contro il nemico di sempre: l’Occidente e la sua nazione-guida.

I giorni nostri e la guerra in Ucraina

Così arriviamo – nudi alla meta – ai giorni nostri, quando la Russia invade l’Ucraina, e il pensiero democratico non ha nessuna arma culturale da opporre allo Zar, privo com’è di riserve ideali e morali cui attingere, e altrettanto privo di forze politiche capaci di opporsi alla deriva biecamente populista della “pace prima di tutto”, ormai senso comune di un’opinione pubblica demotivata e cinica, convinta che “certo Putin non è uno stinco di santo, ma vogliamo parlare di tutti i crimini e gli errori commessi dall’Occidente?”.

Il nemico e la piazza

Mancava un punto, un solo punto per chiudere il cerchio. Mancava il Nemico con la N maiuscola. Che si è materializzato per incanto in Donald Trump, uno che la parte l’interpreta alla perfezione. Così i manifestanti di sabato scorso – infantilmente desiderosi di pace, avvolti nelle bandiere blu dell’Europa che per alcuni significava riarmo e per altri l’esatto contrario, magari poco amanti di Putin ma incapaci finanche di nominarlo per non infastidirlo, e ancor più infastiditi dalla persistenza sulla scena di uno come Zelensky che non piace perché combatte armi in mano – questi “manifestanti confusi” (copyright Michele Serra) di piazza del Popolo ritrovavano per incanto una unità intima e profonda, e subissavano di fischi l’attuale inquilino della Casa Bianca ogni qualvolta uno degli oratori grondanti sdegno ne pronunciava il nome dal palco. Il bello è che – per uno di quei paradossi di cui è piena la storia – forse Donald Trump finirà per realizzare qualcosa di somigliante alla pace, ma non per questo sarà mai apprezzato dai pacifisti. Perché loro, più che battersi per la pace in Ucraina o altrove, vogliono continuare sine die la guerra all’Occidente. Cioè a loro stessi e a tutti noi.