La sorveglianza, hanno rilevato Zygmunt Bauman e David Lyon nel loro preoccupante affresco di una società sempre più involuta e conchiusa in logiche autoritarie, contenuto in ‘Sesto potere’ (Laterza), è una caratteristica tipica e irrinunciabile della modernità. Nonostante spesso faccia scarsa notizia, la sorveglianza si espande silenziosamente nei giorni, nei mesi e negli anni, in ogni nodo vitale della nostra vita, reclamata dalle apparentemente ferree parole d’ordine di una politica piccina.

Il paesaggio urbano si è arricchito di sempre più presenti videocamere, da cui enfaticamente si fa dipendere la nostra sicurezza e il sonno tranquillo delle famiglie, i cieli sono tagliati dal volo dei droni, le divise dei poliziotti ornate da bodycam, una sorta di panopticon digitale che immagazzina volti, esistenze, dati e li convoglia nel ventre oscuro dei centri di elaborazione.

I controlli, nelle banche, negli stadi, negli aeroporti, nei plessi istituzionali, si fanno sempre più invasivi e occhiuti. Non sembra più essere sufficiente l’occhio artificiale delle videocamere, ed ecco così germinare un articolato, complesso dispositivo intessuto di database, profilazione, riconoscimento facciale.

Come se non bastasse, l’epoca delle grandi piattaforme digitali altera ancora di più il profilo sostanziale del vivere civile e rimodula il concetto stesso di sorveglianza.

Viviamo ormai in una società basata su meccanismi continuativi e reiterati di sorveglianza, sempre più stringenti, sempre più micro-cosmicamente legati alla dimensione etica e intima dell’individuo, lungo quel paradigma di una auto-sorveglianza denunciata con nitore concettuale sempre da Lyon, che della cultura della sorveglianza, così è titolato un suo bel libro edito da LUISS University press, è uno dei massimi studiosi e critici.

Secondo Lyon, sin a partire dal suo ‘La società sorvegliata’ (Feltrinelli), l’abbaglio prospettico di una tecnologia che ci donerebbe nuove modalità espressive finisce per condurci alla auto-profilazione, a donare dati personali alle grandi piattaforme digitali, quelle di vendita o quelle più prettamente social, e ai governi – e quando lasciamo circolare i nostri dati, quando li cediamo per accedere a un certo servizio online, lo facciamo spesso incuranti o disinteressati delle conseguenze di ordine pratico.
Un aspetto questo accelerato dalla pandemia e dai dispositivi di contrasto alla diffusione del virus, e che nonostante l’emergenza pandemica sia esaurita continuano a rimanere presenti e visibili nel cuore della società, come ha rilevato lo stesso Lyon in un suo saggio dedicato espressamente alla sorveglianza in tempo di covid (‘Gli occhi del virus’, LUISS University press).

Un tema, quello della edificazione di una autentica cultura della sorveglianza, che il Garante per la protezione dei dati personali in Italia ha analizzato in un convegno di studi, poi divenuto volume significativamente titolato ‘La società sorvegliata, i nuovi confini della libertà’, riprendendo la lezione dello studioso britannico.

Appare evidente come all’avanzare inarrestabile di una sorveglianza sempre più intima, sempre più biologica e psichica nel suo incedere, con la contemporanea funzionalizzazione dell’agire sociale di un individuo che al tempo stesso è sorvegliato e sorvegliante, uno dei primi aspetti di tutela della libertà individuale sia quello della continenza e della piena consapevolezza dell’importanza dei propri dati. La soluzione, sembrerebbe, è ancora una volta quella virtù decantata negli antichi ‘Detti dei padri del deserto’, secondo cui ‘senza la sorveglianza delle labbra è impossibile all’uomo progredire anche in una sola virtù; poiché la prima delle virtù è la sorveglianza delle labbra’.

A volte, silenzio, continenza, minori espansività e voglia di condividere tutto sono davvero virtù. Nulla è gratis, dobbiamo comprenderlo. Quando non ci è chiesto denaro e tutto ci appare gratuito, ciò che finiamo con il cedere è la nostra libertà.