Ieri, in un video post-voto, mi sono detto sollevato in quanto, non essendo un elettore francese, domenica prossima non sarò chiamato a compiere una scelta che in troppi giudicano decisiva, carica di conseguenze, addirittura ultimativa. E già questo è un problema, direi. Perché l’esercizio del voto non dovrebbe mai essere gravato di pesi eccessivi: la bellezza delle società democratiche sta anche nella loro leggerezza, in quella tolleranza di fondo che consente, a chi ne è parte, di optare per diversi gradi di partecipazione allo svolgimento della vita pubblica. A maggior ragione c’è da preoccuparsi quando un voto si gonfia di significati e valenze morali, per cui l’appello alle urne diventa una sorta di giudizio di Dio: se non ci vai, se non fai il tuo dovere, diventi corresponsabile della vittoria dei cattivi, dei nemici, non di altri cittadini che hanno semplicemente opinioni diverse dalle tue.

E il bello – anzi il brutto – è che questa “radicalizzazione di senso” del voto sta crescendo particolarmente in alcuni solidi sistemi bipolari, dove fino a poco tempo fa l’adesione a valori di fondo condivisi pareva di cemento armato (Usa). E finanche in quelli con elezioni a doppio turno, in cui nei ballottaggi si sceglie per definizione il “meno peggio”, opzione di buon senso che sembra smarrita nello “scontro di civiltà” in atto (Francia).

Ma c’è un motivo di fondo per cui anche sistemi politico-elettorali consolidati stanno mostrando la corda? Certo che sì, e la risposta è piuttosto semplice. È che le placide democrazie di un tempo non riescono più a dare rappresentanza a società profondamente trasformate, in cui sono cresciute insofferenze, frustrazioni, emarginazioni, per reali o percepite che siano. Per questo nel nostro Occidente si generano con frequenza crescente movimenti – anche molto diversi tra loro, per genesi, storia, peculiarità nazionali – ma con un humus che in qualche modo li tiene insieme: considerano le democrazie che conosciamo come sistemi largamente imperfetti.

Ora, la domanda successiva è: cosa devono fare le forze che sentono il dovere imprescindibile di “presidiare” la democrazia prima di tutto e purchessia? Devono fare blocco per respingere i barbari? Possono limitarsi a sbandierare i loro principi inappellabili? Non sanno fare di meglio che presentarsi con il volto di anziani e stanchi governanti dell’esistente? O con quello di più o meno giovani tecnocrati che ritengono di essere il sale della terra per il solo fatto di avere fatto buoni studi?

Ecco che cosa non va – al fondo, e per quello che mi riguarda – nell’appello all’Union sacrée in vista dei ballottaggi francesi di domenica prossima. L’idea che si debba far fronte all’assalto dei selvaggi di turno per salvare un sistema che funziona male, facendo un’alleanza – mascherata con la furbizia della desistenza – con chi nutre sentimenti antisemiti, pensa che l’economia abbia bisogno di nazionalizzazioni, manifesta ostilità verso la Nato ed è in buona misura euroscettico, per me non ha nulla di riformista. Meglio, per un riformista, coltivare la propria attuale – si spera temporanea – condizione minoritaria. Lavorando per cambiare le cose, non per difendere l’esistente.