Il caso
La storia della porno tax: quando il fisco incontrò l’eros

In un Paese come l’Italia, dove la commistione tra moralismo e furbizia fiscale è spesso protagonista della vita pubblica, poche proposte hanno saputo far discutere, sorridere e dividere l’opinione pubblica quanto quella della cosiddetta porno tax. Tassare l’intrattenimento per adulti: tre parole capaci di incendiare i talk show, riempire le pagine dei giornali e accendere il sarcasmo di comici e commentatori. Eppure, al di là dell’apparente assurdità, questa proposta è riuscita a sollevare domande reali su cosa sia giusto tassare, dove finisca il diritto alla privacy e inizi quello alla contribuzione, e come si possa distinguere tra contenuto erotico e pornografico in un mondo sempre più sfumato.
L’esordio della porno tax
Siamo nei primi anni Duemila. Internet esiste, ma è ancora una cosa da modem a 56k. La pornografia online gratuita, quella che oggi tutti conoscono grazie a siti come YouPorn e Pornhub, non ha ancora rivoluzionato l’industria dell’“adult entertainment”. All’epoca, l’universo a luci rosse è fatto di videocassette nei retrobottega dei videonoleggi, DVD venduti sottobanco e soprattutto film in pay per view trasmessi da Sky, che proprio nel “contenuto vietato ai minori” trova una delle sue fonti principali di profitto. Ed è proprio in questo contesto che, nel 2003, a lanciare la provocazione della porno tax è Vittorio Emanuele Falsitta, avvocato tributarista, docente universitario e senatore della Casa delle Libertà. Un uomo di legge, rigoroso e poco incline alla spettacolarizzazione. Ma proprio per questo, la sua proposta suonò come una bomba in Parlamento e fuori. L’idea era semplice (almeno in apparenza): tassare i proventi legati alla distribuzione e fruizione di contenuti pornografici per finanziare riforme fiscali e alleggerire la pressione su altri settori.
Scalpore
Falsitta la chiamò una tassa sul piacere. Una definizione che conteneva già, nel suo ossimoro, tutta la forza provocatoria di una proposta capace di mettere insieme eros e fisco. Il primo ostacolo era tanto banale quanto insormontabile: come si definisce legalmente la pornografia? Dove finisce l’erotismo e inizia il porno? Emblematico fu l’esempio portato nelle commissioni parlamentari durante le discussioni sulla proposta: “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. Il film fu condannato al rogo nel 1976 dalla censura italiana, accusato di pornografia. Eppure, nel 1987 fu riabilitato, e nel 2002 l’American Film Institute lo inserì tra i 100 migliori film sentimentali di tutti i tempi. Un film d’autore o pornografia travestita da arte? La risposta, come sempre, dipende dagli occhi di chi guarda.
Ecco allora il paradosso: come si tassa qualcosa che non si sa esattamente cosa sia? Serviva una definizione giuridica di pornografia, ma ogni tentativo di codificarla rischiava di scivolare nel ridicolo, o nella censura. La proposta di Falsitta fece il giro dei palazzi della politica, ma soprattutto di quelli della satira. I comici televisivi ci andarono a nozze: qualcuno immaginò di poter scaricare le spese per i film porno nella dichiarazione dei redditi, altri ironizzarono sull’ipotesi di controlli della Guardia di Finanza nei sexy shop. Ma non mancò anche chi prese la proposta con serietà. Alcuni ambienti politici, anche trasversalmente, la accolsero come una forma di giustizia fiscale: un mercato florido, seppur nascosto, che avrebbe potuto contribuire alle casse dello Stato.
Le altre vite della porno tax
Non era forse lo stesso principio che aveva portato alla tassazione delle sigarette o dell’alcol? In fondo, l’argomento era semplice: se il piacere genera profitto, quel profitto può – e deve – essere tassato. Nel corso degli anni, la porno tax ha avuto molte vite. È tornata nei talk show e nelle interrogazioni parlamentari, è riemersa ogni volta che si parlava di evasione fiscale nei settori dell’intrattenimento. Non è mai diventata legge, ma è rimasta nell’immaginario collettivo come esempio perfetto di proposta a metà tra la provocazione e la riforma. E se il nome di Vittorio Emanuele Falsitta rimarrà’ legato a questa proposta, è perché ha saputo – come pochi – portare una questione marginale al centro del discorso fiscale nazionale.
Oggi, in un’epoca in cui la pornografia è gratuita, accessibile e pervasiva, la porno tax appare ancora più utopica – o distopica – di quanto non fosse vent’anni fa. Tassare il piacere resta una provocazione più che un progetto realizzabile, ma continua a far riflettere sul rapporto tra morale, economia e libertà individuale. E, forse, proprio per questo, la porno tax resta viva: non nelle leggi dello Stato, ma nella memoria collettiva di un Paese in cui anche il fisco, ogni tanto, sogna di diventare spettacolo.
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