L’Alcide. Alcide e Palmiro. E Pietro Nenni. Come ritirar fuori dalla naftalina della memoria un uomo come Alcide De Gasperi, di cui si ricorda a malapena che fu lui con la sua Democrazia Cristiana e gli alleati, a vincere le minacciosissime elezioni del 1948? Fu allora, il 18 aprile di quell’anno, che il “Fronte Popolare” delle sinistre perse quello che si rivelò un referendum per la scelta di campo nella guerra delle civiltà che a quei tempi era brutale: Russia o America, I socialisti avevano appena perso il gruppo filoamericano di Giuseppe Saragat, con cui si schierò anche la rivoluzionaria russa Anna Kuliscioff.

Fra le due guerre mondiali Anna era stata una dirigente del partito comunista nell’Unione Sovietica di Lenin e Stalin e poi era tornata in Italia sconvolta e felice di parteggiare per i filoamericani. Alcide invece era imperiale. Era nato cittadino dell’Impero Austro-Ungarico, era stato deputato per l’etnia italiana al Parlamento di Vienna, era impazzito di dolore quando il Regno d’Italia nel 1915 decise di scendere in guerra con l’Intesa contro la Triplice alleanza. Alcide era costernato e di notte a Trento litigava con Cesare Battisti, che poi scappò in Italia, si arruolò, fu preso prigioniero dagli austriaci e giustiziato da un boia con la bombetta che gli stringeva a mano il cappio. L’altro del terzetto a Trento che faceva notti insonni con la barba lunga e il revolver sempre sul tavolo, era Benito Mussolini, con gli occhi strabuzzati per la fame, la barba incolta e senza fissa dimora, tessendo complotti. Poi, la polizia imperiale gli notificò un ordine di espulsione che lo portò a Ginevra nello stesso albergo di Lenin, il quale in seguito dirà di non averlo mai visto mentre Mussolini non faceva che raccontare storie su quell’amicizia.

Alcide De Gasperi era uomo d’ordine e quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria, andò a trovare i funzionari viennesi che conosceva per dire quanto era disperato per la scelta di Roma e che certamente a un eventuale referendum il novanta per cento dei trentini italianofobi sarebbe stato per l’Impero. Poi ci fu la guerra, venne in Italia e seguitò a costruire il Partito Popolare, ovvero il partito dei cattolici, ovvero la futura Democrazia Cristiana. Quell’allucinato capopolo baffuto con cui litigava di notte a Trento, era diventato capo del governo fascista a Roma, e si era tagliato i baffi. Ma si era messo in testa il cilindro e portava le ghette. Il resto è storia nota: esilio, sparizione, rapporti clandestini con i cattolici diventati antifascisti dopo essere stati fascistissimi e poi lo spirito della Resistenza. E poi scoppiò la Guerra fredda. Erano le avvisaglie, già marcate. Stati Uniti e Regno Unito stavano rompendo con Stalin dopo Yalta. Churchill aveva pronunciato il discorso di Fulton, in America, in cui aveva inventato l’espressione “Cortina di ferro”The Iron courtain – da cui i derivati oggi incomprensibili come “oltrecortina” e insomma bisognava decidersi e schierarsi da una parte o dall’altra.

Per la verità c’era poco da decidere perché i quattro grandi avevano già deciso tutto a Yalta dove i dettagli erano stati decisi solo da Churchill e Stalin che trattavano durante la conferenza passandosi dei disegnini fatti su una scatola di fiammiferi da cui sarebbe emersa l’Europa: Stalin voleva i “buffer states” esattamente come oggi Putin: una cintura di stati vassalli, occupati. E l’Italia non era fra quelli: appartenevamo al mondo libero dei Paesi liberi sotto controllo americano ma ancora a quei tempi britannico. De Gasperi odiava i Savoia che invece i conservatori inglesi avrebbero voluto salvare per maggior stabilità conservatrice e De Gasperi amò gli americani. Così, di botto. C’è da dire che nel frattempo l’Alcide era diventato capo del governo ed era un governo con dentro comunisti e socialisti (Pietro Nenni agli Esteri, Togliatti alla Giustizia) e lo sarebbe stato per circa cinque anni, per essere poi fatto fuori dalle leve fameliche della Dc. Basta dire che De Gasperi si era preso come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio il più giovane, il più votato da monache e preti, deputato italiano, un ragazzino di nome Giulio Andreotti.

L’Italia che fu governata da De Gasperi all’inizio era l’Italia del Cln e dell’antifascismo, ma dopo il viaggio in America sarebbe diventata l’Italia della Guerra Fredda e dell’anticomunismo. I comunisti sapevano perfettamente che sarebbe finita così perché era scritto non sull’acqua ma sulle carte ma reagirono molto male.
Durante il suo primo viaggio, De Gasperi restò sbalordito dall’America, dagli americani, dal loro modo di festeggiarti. Gli Usa avevano i duri al comando: i fratelli Dulles – Foster al dipartimento di Stato e Allen capo della Cia – il presidente Truman succeduto a Roosevelt come suo vice, ma con un animo da repubblicano pronto alla rissa. Fra cerimonie e fuochi, parate e fanfare, gli americani dissero ad Alcide che l’Italia si sarebbe trovata benissimo nello schieramento delle democrazie del mondo libero. E poi, ecco qua i primi cinquecento milioni di dollari in aiuti, molti di più ne verranno, pensa di poter dire che Italy is with us? De Gasperi non aveva bisogno di essere forzato: aveva dichiarato molte volte il suo timore, poi il suo disgusto per il mondo dell’Est. Una volta rientrato De Gasperi, si sparse subito la voce: abbiamo un contratto con l’America. Dobbiamo sbattere fuori comunisti e socialisti dalla coalizione di governo.

De Gasperi lo fece e l’Italia andò allo scontro: da una parte la Democrazia cristiana alleata dell’America e dall’altra comunisti e socialisti alleati dell’Urss. A quel tempo le posizioni di Pietro Nenni erano ancora fortemente filosovietiche anche se poi avverrà lo sganciamento con la riconsegna del “Premio Stalin” che il leader socialista aveva incautamente accettato. Gli americani avevano promesso a De Gasperi di darsi da fare per restituire Trieste all’Italia. Trieste era in un regime di occupazione alleato ma di fatto sotto il dominio jugoslavo del Maresciallo Josip Broz, detto Tito, un eroe partigiano legatissimo, tuttavia, agli inglesi e in particolare a Winston Churchill, considerato il delfino di Stalin, ma che proprio nel 1948 ruppe con Stalin provocando un terremoto nell’area balcanica. Nel 1948 si sarebbe consumato un colpo di Stato comunista a Praga. Le elezioni del ‘48 furono elezioni come non se ne erano mai viste in Europa: combattute con comizi volanti, manifesti, gli “agit-prop” comunisti capaci di tener testa a chiunque, sicché la sensazione era che il Fronte vincesse.

Ricordo benissimo gli uomini in bicicletta – le città erano solo piste ciclabili con poche macchine, che si fermavano un attimo come le formiche per dirsi: “il Fronte vince”. Il Fronte si presentava con il volto di Garibaldi, la coalizione democristiana aveva per simbolo lo scudo crociato che è pur sempre un’arma difensiva. La coalizione guidata dalla Dc prese il 48 per cento e le sinistre erano crollate anche sotto il martello dei parroci chiamati a ricordare dal pulpito delle chiese che i comunisti erano scomunicati e nemici della chiesa di Dio. De Gasperi personalmente aveva vinto e si preoccupò di dar vita a un governo di coalizione con repubblicani e socialdemocratici di cui non aveva realmente bisogno. Ma sapeva che le elezioni non sarebbero più state vissute come uno scontro di civiltà e che l’idea di dare al Paese uscito da una guerra voluta da un uomo solo al comando, era sbagliata.

D’altra parte, lo aspettava una prova tremenda: far accettare agli italiani e ai partiti, l’adesione al Patto Atlantico, quello che oggi chiamiamo semplicemente Nato. L’Italia, fascisti a parte, non si sentiva per niente affascinata dalla prospettiva dell’adesione a una alleanza militare che rappresentava una parte del mondo armata contro l’altra. Il capo del movimento cattolico contrario a quell’adesione fu l’intellettuale, non ancora prete, Giuseppe Dossetti, che fece appello alla coscienza dei cattolici affinché non accettassero un voto parlamentare di ratifica del trattato. La risposta di De Gasperi fu da giocatore di scacchi: mandò a Castel Gandolfo (residenza estiva del papa) il conte Sforza, che era stato il suo candidato presidente. Sforza spiegò al principe romano Eugenio Pacelli, ora Papa Pio XII, la necessità di richiamare all’ordine la sinistra cattolica e Pacelli – che era stato per anni il miglior diplomatico della Santa Sede – acconsentì. Fece un’omelia in cui si spiegava perché ogni buon cristiano avrebbe dovuto essere a favore dalla Nato e Dossetti in Parlamento fu costretto a votare a favore.

Ma col Vaticano le cose non andarono sempre lisce: «Chi poteva immaginare che proprio a me, povero cattolico della Valsugana, dovesse capitare di dire di no al papa», scrisse De Gasperi nelle sue memorie. Era accaduto quando il papa aveva deciso di far candidare a Roma come sindaco Don Sturzo, figura storica del partito popolare di cui era stato fondatore, con i voti di monarchici e fascisti per contrastare i comunisti. De Gasperi disse di no, non avrebbe mai chiesto al suo partito di coalizzarsi con fascisti e monarchici. L’ultima sua battaglia fu una battaglia persa. Quella della cosiddetta “legge truffa”. Si trattava di una legge elettorale maggioritaria arrivata al voto in Parlamento che avrebbe assegnato un premio al partito di maggioranza relativa,

Il Pci e il Psi scatenarono una formidabile campagna mediatica fatta da giornali, radio e comizio per strada e alla fine la legge non passò per pochi voti e la sinistra unita ebbe la sua rivincita. E De Gasperi vide anche che nel partito la sua leadership era finita. Era stato battuto. E con uno stile impeccabile si dimise e lì terminò la sua carriera storica cominciata come suddito entusiasta dell’imperatore Francesco Giuseppe.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.