Riflettori puntati sulle lungaggini dei procedimenti
La storia di Antonino Melodia, chiede un permesso ma attende risposta da 8 mesi…
Lungaggini e ritardi sono il male oscuro della giustizia. Lo abbiamo detto, e sentito dire, migliaia di volte. Da tempo si discute di riforme che dovrebbero curare questo male, ma fino a questo momento la situazione non sembra far registrare miglioramenti significativi. E al Tribunale di Sorveglianza di Napoli la situazione è, se possibile, ancora peggiore se si considerano le carenze e le lungaggini che appesantiscono il lavoro di chi opera all’interno di questo settore della giustizia e le attese di chi si trova a dipendere dalle decisioni di questo Tribunale. Uno dei casi più recenti, ed eclatanti, riguarda un detenuto del carcere di Secondigliano, uno di quelli condannati al fine pena mai, con l’ergastolo da scontare e alle spalle accuse che vanno dall’associazione mafiosa all’omicidio.
Insomma, un boss di quelli per i quali l’opinione pubblica sarebbe più incline al giustizialismo che a spiragli di umanità della pena. Ebbene, questo detenuto attende da molti mesi una risposta definitiva alla sua richiesta di ottenere un permesso premio. Ad aprile aveva presentato la richiesta, a fine luglio è arrivato il rigetto della richiesta e da allora – sono trascorsi cinque mesi – attende la fissazione dell’udienza per discutere il reclamo. In totale, questa vicenda pende dinanzi al Tribunale di Sorveglianza di Napoli da otto mesi. Non vi sembrano troppi per arrivare a una decisione relativa a un permesso? Può davvero dirsi giusta una giustizia che risponde con simili ritardi e può definirsi davvero umana una pena per cui si resta sospesi per un tempo indefinito e indefinibile alla decisione di un giudice? Ora, è pur vero che il Tribunale di Sorveglianza di Napoli si trova a lavorare con una pianta organica molto ridimensionata rispetto alle reali necessità e che la mole di detenuti in Campania è tale da determinare un flusso enorme di atti, istanza, decisioni. Ma tanti mesi per definire un’istanza e un ricorso sembrano troppi.
L’attesa è quella di Antonino Melodia, boss della mafia siciliana di Alcamo. Detenuto ininterrottamente dal 30 aprile 1985, praticamente ha vissuto in cella più della metà dei suoi anni. Aveva 26 anni quando fu arrestato, oggi è un uomo che ha superato la sessantina e si è adattato alla vita in carcere e al percorso della pena al punto da aver ottenuto, negli ultimi tempi, due permessi per uscire per qualche ora dal carcere e ritrovare una dimensione di umanità. Seppur minima, perché si tratta di un condannato all’ergastolo per accuse gravi. Sta di fatto che sulla scia di questo percorso di umanizzazione della pena, Melodia aveva chiesto, ad aprile scorso, un permesso. Il giudice ha risposto a fine luglio, negandolo sulla base della recente sentenza della Corte Costituzionale in tema di ergastolo ostativo e accesso ai permessi premio. In questo caso il permesso consiste nel consentire al detenuto siciliano di trascorrere otto ore in una comunità a Pompei. Quel rifiuto è stato impugnato, puntando sull’assenza di contestazioni ed elementi nuovi e tali da rendere non più meritevole, il detenuto, del permesso premio. E da luglio ad oggi (sono trascorsi cinque mesi) non è stata ancora nemmeno fissata l’udienza.
L’avvocato Gabriella Di Nardo, che assiste Melodia, conferma le lungaggini di questa attesa. Nessun commento sul merito della vicenda che sarà discussa davanti ai giudici. Anche noi non vogliamo entrare nel merito di questioni che vanno valutate in diritto e nelle sedi opportune, né vogliamo prestare il fianco a polemiche populiste. Ma questa storia, come tutte quelle di bibliche attese per avere una risposta dalla giustizia, solleva interrogativi: è normale che otto mesi non bastino per avere una risposta definitiva su una questione relativamente semplice come il rinnovo di un permesso già concesso in passato? La pena vissuta in questo limbo è umana? E una giustizia così lenta e indifferente può essere davvero giusta?
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