La storia di Giuseppe Sposato e della figlia Veronica che ha il cuore tra le sbarre

Veronica il cuore ce l’ha in galera. Se ne sta dentro il petto di suo padre, nel carcere di Prato. Giuseppe Sposato è un detenuto, condannato in primo grado a 14 anni, aspetta l’appello, il giudizio definitivo, per reati di mafia. Che Veronica lo creda innocente sta nel diritto di una figlia. Per lei ora non è il tema della responsabilità la questione urgente. È che forse, Giuseppe, al giudizio della Cassazione potrebbe non arrivarci. In carcere è entrato con cento chili di carne addosso che adesso superano di poco i cinquanta, ci è entrato diabetico, con trattamento insulinico. Ed era pure cardiopatico, durante la carcerazione, nell’aorta, gli sono stati aggiunti diversi by-pass, i medici dicono che gliene occorrerà ancora qualcuno. E la natura ha infierito, nella parte terminale del colon si è presentata una massa che si sta indagando, molto probabilmente tumorale.

Giuseppe sta nelle sezioni di alta sicurezza che il covid19, di fatto, ha trasformato in 41bis non dichiarato, col detenuto visibile solo attraverso il vetro. Ma nessuno più posa il proprio sguardo oltre il cristallo, perché Giuseppe i suoi non li vuole se non li può toccare. Rifiuta i colloqui. E la china è quella che di solito si dice pericolosa, quella che piega in una discesa che non si interrompe, se non al suo fondo. Giuseppe sta in carcere perché i medici dell’accusa, quelli dello Stato, dicono che le sue condizioni sono compatibili con la detenzione. I medici della difesa dicono il contrario: lui è troppo grave per stare in galera. La cura di un malato è quella cosa complessa che non si realizza solo con il bisturi e le medicine. La cura è fatta di carezze, di sguardi senza interruzioni, di letti d’ospedale, non di brande d’acciaio, di sorveglianza di polizia. E che Giuseppe sia innocente o colpevole, buono o cattivo, il suo diritto a essere curato nel modo migliore, ad avere un trattamento umano, sta scritto nella Costituzione. In quella carta fondamentale che ci tiene tutti sotto la stessa bandiera.

Ma la madre dell’Italia non la citiamo più, se non per nominarla invano. Non la comprendiamo, spinti verso la confusione da chi il cuore non saprebbe utilizzarlo e fonda il proprio benessere sull’erosione del fegato. Veronica ha il cuore in galera, dietro un vetro nel carcere di Prato, l’innocenza, la colpevolezza, non sono le sue questioni. Il suo dramma è che il cuore di suo padre, alla fine del processo ci potrebbe non arrivare. Il suo problema sono le cure, quelle carezze che vorrebbe dare: non in riva a un mare o, in casa, ai bordi di un letto. Si accontenterebbe di toccare suo padre in una corsia di ospedale, sentire con le proprie orecchie le parole tranquillizzanti dei medici. Giuseppe sta in galera da tre anni, e ancora non lo sappiamo se sarà ritenuto responsabile, o assolto.

Ma pure che fosse cattivo, pure cattivissimo, e pure che tutti i medici del mondo dicessero che lo si può curare in galera, la questione non è giuridica, è Costituzionale: un uomo diabetico, con tre by-pass aortocoronarici e la necessità di inserirne un altro, con una sospetta neoplasia al colon, non può dirsi trattato umanamente e senza degrado, se anziché in un luogo di cura, trascina le proprie patologie nella sezione di un carcere. Questa però non è l’epoca della rinascita, non si risorge da una guerra sanguinosa che dopo tutto il danno possibile ha partorito uno spirito di fratellanza sufficiente a tifare per la libertà, le garanzie.

La nostra è l’epoca delle incertezze, delle mancanze: gli ideali sono scarsi, inesistenti gli uomini che ne possano incarnare quelli alti. Se uno come Giuseppe Sposato andasse in ospedale si alzerebbero gli strepiti di quelli che il cuore non sanno più dove trovarlo. Ma neppure questi possono impedire a una figlia di lottare per suo padre.