Cronaca
La storia di Lucia e Antonio, la giustizia riparativa non fa bene solo all’autore del reato ma anche alla vittima
Lucia di Mauro Montanino lavora come assistente sociale a Napoli e di adolescenti con gli occhi pieni di rabbia e una vita già segnata ne aveva incontrati tanti. Ma mai avrebbe pensato che uno di quei ragazzini il 4 agosto 2009 in Piazza Mercato a Napoli avrebbe ucciso a sangue freddo suo marito, Gaetano Montanino, guardia giurata, durante un tentativo di rapina.
Antonio, il carnefice, all’epoca aveva 17 anni, era il più piccolo della banda. Fu condannato a 22 anni di reclusione ed è uno dei tanti ragazzi del carcere minorile di Nisida portati sul Palco dell’Ariston da Francesca Fagnani. Uno dei tanti a cui se chiedi “Cosa cambieresti della tua vita?” ti risponde: “Sarei andato a scuola”. Perché se nasci in quel quartiere, in quel palazzo o da quella famiglia è solo tra i banchi di scuola che puoi vedere la possibilità di una vita alternativa a quella già scritta per te da altri. Uno dei tanti il cui destino pare irreversibile, che da adulto uscirà dal cercare peggiore di come c’è entrato, verso il quale ancora oggi le istituzioni non riescono ad assolvere il dovere Costituzionale di affiancare alla pena la rieducazione e la possibilità di un reinserimento sociale e lavorativo.
Ma Antonio nel suo percorso ha incontrato Lucia e la catena si è spezzata. Per anni il solo pensiero di incontrare l’assassino di suo marito la faceva star male. Antonio gliel’aveva chiesto tramite il direttore dell’istituto minorile di Nisida. Poi l’incontro è avvenuto quasi per caso, durante una marcia di “Libera” sul lungomare di Napoli, cui Antonio aveva avuto il permesso di partecipare. A Gubbio qualche giorno fa – durante la Festa del Perdono – Lucia con estrema semplicità, raccontando una decisione che ha dell’incredibile come fosse la cosa più normale del mondo, racconta: “Lo guardai. Mi aspettavo un mostro, invece vidi un ragazzino, un animale ferito dal male che lui stesso aveva provocato”. Antonio ha chiesto perdono e Lucia l’ha aiutato a cambiare vita, arrivando in pratica ad adottare la sua famiglia. Oggi Antonio lavora in una cooperativa sociale che gestisce il bene confiscato alla mafia intitolato proprio alla sua vittima, Gaetano Montanino. In termini tecnici si chiama “giustizia riparativa”.
Siamo abituati a pensare ad una giustizia che accerta chi ha compiuto il reato e stabilisce una punizione. La giustizia riparativa introduce un pensiero alternativo: guarda anche ai bisogni della vittima, alla sua sofferenza, a come si può riparare. Un esempio interessante è quello della Norvegia (dove istituti di riconciliazione esistono già da circa 30 anni). In Finlandia si insegna la mediazione sin dalle scuole. In Francia, ancora, sono stati creati dei centri di prima accoglienza per le vittime. Perché giustizia riparativa vuol dire incontro ma anche prendersi cura di chi il reato l’ha subìto.
In Italia, dopo anni di riflessioni teoriche ed esperienziali, solo nel 2022 – all’interno della riforma Cartabia del processo penale – l’ordinamento ha introdotto la giustizia riparativa, dopo che la Commissione Europea aveva aperto nei confronti del nostro Paese una formale procedura di infrazione per la mancanza di una disciplina organica della materia. Con la riforma è stato introdotto un sistema che si affianca a quello del contenzioso e si attua per tramite di una mediazione volta ad individuare una soluzione negoziata tra la vittima e l’autore del reato, mediante l’ausilio di una persona terza competente che è, appunto, il mediatore. Il 5 luglio 2023 sono stati pubblicati i due decreti attuativi che hanno ad oggetto il percorso formativo per diventare mediatore esperto in giustizia riparativa e la disciplina dell’istituito elenco dei mediatori. Rimangono ad oggi da fare molti passaggi attuativi per realizzare l’assetto istituzionale ed organizzativo prefigurato dal decreto delegato (la creazione dell’albo dei mediatori, l’istituzione della Conferenza Nazionale per la giustizia riparativa, la realizzazione dei centri a livello regionale). Fatto ciò, create e messe in opera cioè le “infrastrutture” relative ai servizi di mediazione penale, il buon esito della riforma dipenderà dalla capacità e volontà effettiva di tutto il sistema “giustizia” di promuovere e diffondere la cultura della conciliazione e della riparazione da parte di tutti i soggetti interessati alla ricomposizione della frattura – generata dal reato – tra autore, vittima e società civile (giudici, pubblici ministeri, avvocati, organi di polizia, personale giudiziario, servizi di assistenza alle vittime, ecc.). E da ciò che accadrà nei mesi a venire si capirà se effettivamente nel nostro Paese c’è la volontà politica di innestare nel sistema penale il rivoluzionario capitolo della giustizia riparativa, che rappresenta la vera novità e il tratto davvero caratterizzante della riforma Cartabia.
Perché – come testimonia Lucia con la sua storia – la giustizia riparativa non fa bene solo all’autore del reato ma anche alla vittima, che può con fatica trovare un’altra strada per elaborare il dolore e sentirsi risarcito da una giustizia responsabile. A Gubbio Lucia, con gli occhi lucidi, lo sguardo fiero e un’umanità e semplicità sconcertanti, ci ha salutato dicendoci: “Tutti mi chiedono cosa penserebbe Gaetano del mio impegno a favore di uno dei suoi carnefici. Rispondo che ne sarebbe felice perché si è evitata una vittima in più. Una giustizia che pensa solo a punire non fa altro che creare nuove vittime”.
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