Se non ci fossero il muro di cinta e le garitte, lo confonderesti con quelle palazzine tipiche dell’edilizia residenziale della fine degli anni 50. Tre piani al massimo, tirati su con molto mattone e poco cemento armato, la materia prima delle case popolari e delle carceri costruite negli anni 80, cosiddette “d’oro” solo per quanto sono costate, per il resto grigie, fredde d’inverno e bollenti d’estate, destinate alla fatiscenza nel giro di vent’anni. La Casa Circondariale Gazzi di Messina si presenta in condizioni generali dignitose, quasi tutti i reparti sono stati ristrutturati e sembrano nuovi, forse perché i lavori sono stati quasi totalmente realizzati “in economia”, senza gare d’appalto esterne e grazie solo a qualche unità di manodopera detenuta.
Come annunciato a Rita Bernardini, il direttore accoglie con una sorpresa la delegazione di Nessuno tocchi Caino e della Camera Penale di Messina. Ci porta a vedere il teatro, il “Piccolo Shakespeare”, inaugurato a dicembre 2017: uno scrigno di bellezza dentro un luogo di bruttezza, creato da due donne straordinarie, il direttore del carcere Angela Sciavicco e il direttore artistico del teatro Daniela Ursino, per cercare di contenere con leggerezza e umanità la natura di uno spazio e di un tempo che sono pur sempre quelli di privazione della libertà. Lì assistiamo a un saggio di teatro-danza delle detenute in Alta Sicurezza che, dando corpo alle proprie emozioni e alla propria anima, interpretano le più belle canzoni di Mina.
Le ritroveremo nella sezione femminile dove vediamo l’altra faccia del carcere, la più dolente, quella della pena e della sofferenza che strutturalmente connotano il carcere, questo monumento anacronistico della storia ottocentesca dei delitti e delle pene, che gli analfabeti costituzionali della “certezza della pena” vorrebbero conservare in eterno, ristrutturare ogni tanto ed edificare ancora per far fronte a tutte le paure del nostro tempo e della nostra società. Che il carcere, e prima ancora il diritto penale, sia un sistema da superare è opinione sempre più diffusa, che ha colpito la mente anche di chi non t’aspetti, come Beppe Grillo: all’insaputa dei Cinque stelle al governo e in parlamento che vogliono chiudere la gente in cella e buttare via la chiave, ha detto che «il carcere è dannoso e, quindi, va abolito».
Se hai la disgrazia di ammalarti, in carcere il danno rischia di essere irreparabile. È quello che sta accadendo a Rosa Zagari, che incontriamo con Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti in una cella della sezione femminile. Un anno fa, quando era a Reggio Calabria, è caduta nel bagno del carcere e si è rotta due vertebre. I sanitari dell’ospedale e quelli del carcere le hanno prescritto l’uso costante del busto, che sarebbe stato montato però in modo irregolare e tenuto per sei mesi, tre mesi di troppo secondo la normale prassi terapeutica. I postumi della caduta, dopo un anno, sono evidenti. Se sei in carcere, tutto diventa più grave: non puoi scegliere un medico di fiducia, non puoi andare nella clinica migliore, non puoi dire la tua sulla prescrizione della terapia più idonea, non puoi avere un letto adeguato alla tua condizione clinica, non puoi, non puoi, non puoi.
Rosa la vediamo che non riesce a camminare regolarmente senza l’aiuto di una compagna di cella e avverte fortissimi dolori a ogni movimento che – dice – sembra che la schiena le si stia spezzando. La troviamo stesa sul letto con due cuscini che la sollevano un po’ e, forse, alleviano i dolori. È uno scricciolo, forse più piccola di quanto sia mai stata, per il peso perso durante la detenzione o per via della malattia. È vestita di nero, il colore del lutto – penso anche – per la recente perdita della madre Teresa, che se n’è andata a dicembre con il suo cruccio più grande, quello di non sapere cosa sarebbe successo a sua figlia Rosa, finita in carcere per amore e bloccata su una branda per il dolore.
Sì, perché Rosa è stata condannata a otto anni in primo grado per associazione di stampo mafioso, di fatto solo per via di una relazione di natura sentimentale più che criminale che l’ha portata a condividere una parte della sua vita con la persona amata da lei ma “sbagliata” per gli altri, essendo ritenuta il pericolo pubblico numero uno della ‘ndrangheta. «Pago una colpa, quella di aver amato una persona», ci dice Rosa. «Se l’amore costituisce reato, ditemi dove sta scritto nel codice penale». Si tratta di “associazione di stampo amoroso”, non c’è nel codice penale ma è comprovata da incontri, convivenze e intercettazioni con la persona amata.
È un “reato” comune a molte detenute della sezione di alta sicurezza del Carcere di Messina, quasi tutte imputate e non condannate, eppure già colpevoli – dicono – sol perché “mogli, figlie, sorelle di nomi noti”. È il caso di una donna di una certa età con un tumore al seno, da un anno in carcere, in attesa di giudizio e di un posto letto all’ospedale per l’operazione. È il caso di una giovane mamma, anche lei “moglie di”, che piange disperata perché le hanno tolto la patria potestà, l’amore legale dei due figli piccoli e la gioia di fatto di vederli al colloquio.
Nel caso di Rosa Zagari, quando lo incontrava, il suo amore era latitante, ora è detenuto al carcere duro. Dov’è il pericolo – di fuga o di reiterazione del reato – se Rosa uscisse dal carcere per andare a casa o all’ospedale, per curarsi, per evitare a se stessa il rischio patente di una paralisi, e allo Stato la patente di un potere paralitico, inanimato da giustizia, pietà, umanità.