Editoriali
La storia non insegna nulla: quattro anni fa l’Europa ha sottovalutato Trump

Quando – contro tutte le previsioni – Donald Trump fu eletto (grazie al meccanismo del collegio elettorale nazionale, perché col voto popolare il tycoon raccolse tre milioni di suffragi in meno di Hillary Clinton) il mondo accolse la notizia “percosso e attonito”. In Italia fu Antonio Razzi a “sdoganare” il presidente eletto. «Io sono il Trump italiano – dichiarò, partecipando alla trasmissione Un Giorno da Pecora, l’allora senatore di Fi – ed ero sicuro che avrebbe vinto appena partite le primarie americane. Tutti mi prendevano per pazzo, oggi si è visto chi aveva ragione». «Si riconosce in Trump?», gli chiesero. «Sì, perché i pensieri sono gli stessi (sic!). E poi è simpatico, con quel ciuffo di capelli». Un endorsement importante per il nuovo presidente Usa. E un complimento al barbiere. Ma la scenetta radiofonica è, a suo modo, rappresentativa di come venne accolta in Italia l’elezione di un siffatto personaggio.
Purtroppo la storia non insegna nulla. Tanti dittatori venuti alla ribalta tra le due guerre del secolo scorso erano personaggi che suscitavano ilarità. A vedere oggi le performance di Benito Mussolini nei film Luce ci si chiede come abbiano potuto gli italiani non accorgersi della sua somiglianza col Napoloni di Chaplin nel suo capolavoro Il Grande Dittatore. E Adolf Hitler “il caporale boemo”? Di lui scrive Benjamin Carter Hett nel suo Morte della democrazia (Einaudi 2019): «Nel 1919 quando entra in politica, non ha alcuna esperienza e, in apparenza, alcun talento. Nei successivi quattordici anni viene continuamente sbeffeggiato e sottovalutato. Sembrava il cameriere di un ristorante di una stazione ferroviaria, diceva la gente, o un parrucchiere». Trump (il Donald – circolava la battuta – è come Sansone. La sua forza sta tutta nei capelli) sembrava totalmente un’anomalia per la raffinata opinione pubblica europea che non si accorgeva o non dava l’importanza dovuta a quanto stava succedendo in quello che una volta era chiamato “l’Occidente” e addirittura “il mondo libero”. Le leadership delle nazioni-guida – gli Usa con l’elezione di Trump e il Regno Unito con la Brexit – erano approdate a scelte isolazioniste, sovraniste e divenute il punto di riferimento e di incoraggiamento dei movimenti che – nel ruolo di “quinte colonne” – intendevano sfasciare l’Unione. Tornavano alla ribalta tensioni che non erano una novità nella storia di questi grandi Paesi.
Donald Trump non era stato originale quando aveva scelto lo slogan elettorale. America first era il nome di un gruppo isolazionista che si oppose alla rielezione di Franklin Delano Roosevelt nel 1940. Di questi suoi avversari – affermava il grande Roosevelt – alcuni dicono con metà bocca: «No, questo non mi piace, non amo la dittatura», e poi, con l’altra metà: «Bè, la dittatura sconfiggerà la democrazia, tanto vale dunque che la si accetti». Dal canto suo, Neville Chamberlain fu il principale protagonista del Patto di Monaco del 1938, colui che scelse il disonore per avere la pace e – come profetizzò Winston Churchill – ottenne sia il disonore che la guerra. Qualcuno però – Oltreoceano – aveva capito. E ci aveva messi tutti in guardia. Nel suo saggio: Fascismo. Un avvertimento (Chiarelettere 2019), Madeleine Albright, segretario di Stato di Bill Clinton dal 1997 al 2001, parlando di Trump e della sua linea di condotta descriveva i processi che avrebbero potuto portare una grande nazione democratica a scoprirsi fascista in una certa fase della sua storia. Innanzi tutto – aggiungeva – per i populisti era necessario convincere gli altri delle menzogne con le quali loro vanno alla ricerca di un facile consenso. A tal proposito l’esponente politica democratica citava un episodio a suo avviso indicativo. Leggiamo insieme il brano – ripreso nel libro – di un discorso di Donald Trump in Pennsylvania nell’aprile del 2017.
«Da decenni il nostro Paese vive il più grande saccheggio di posti di lavoro nella storia del mondo. Voi qui in Pennsylvania lo sapete meglio di chiunque altro. Le nostre industrie sono state sprangate, le nostre acciaierie sono state chiuse e i nostri posti di lavoro ci sono stati sottratti per essere trasferiti in altri paesi, alcuni dei quali mai sentiti prima. I politici hanno spedito le nostre truppe a difendere i confini di nazioni straniere, ma hanno lasciato quelli americani liberi di essere violati. Abbiamo destinato miliardi su miliardi di dollari a un progetto globale dopo l’altro, ma quando orde di criminali hanno invaso il nostro Paese non siamo stati in grado di garantire la sicurezza alla nostra gente. I nostri governi si sono precipitati a sottoscrivere accordi internazionali che prevedono che gli Stati Uniti paghino i costi e si accollino gli oneri, mentre gli altri paesi si prendono tutti i benefici senza sborsare un soldo».
Madeleine Albright dimostrava, invece, che Trump, con quelle parole, mentiva agli elettori della Pennsylvania attraverso argomentazioni «pensate per fare leva sulla insicurezza e suscitare indignazione». Nello Stato in questione la disoccupazione, in verità, era scesa al di sotto del 5% rispetto all’8% di alcuni anni prima. Considerando tutto il Paese, più di 200mila posti di lavoro dipendevano dalle esportazioni dirette in Canada, Messico e Cina; dal 2009 al 2016 l’inflazione si era mantenuta bassa, il tasso di disoccupazione si era dimezzato ed erano stati creati 12 milioni di posti di lavoro.
Se non ci fossero dei chiari riferimenti agli Usa, il brano citato potrebbe essere benissimo attribuito a Matteo Salvini o a Giorgia Meloni. Perché il discorso del presidente americano era dello stesso tenore di quelli dei sovranisti europei di cui i due “compari di merende” sono esponenti di spicco. Si vede che esiste un “comune sentire populista” che rimbalza attraverso quello stesso Oceano sul quale in altri tempi transitavano ideali di libertà e di democrazia portati con le armi di milioni di soldati che vennero per ben due volte a combattere (e a morire) per la salvezza del Vecchio Continente. Così, le forze di opposizione «anziché mobilitarsi – scriveva ancora Albright – vanno avanti come se niente fosse, sperando che in futuro le cose migliorino, fino a che un giorno apriranno gli occhi, scosteranno le tende e si ritroveranno in uno Stato semifascista». Tutto ciò perché «il fascismo si nutre di malcontento sociale ed economico, per esempio della convinzione che le persone che stanno al potere ricevano molto di più di quello che meritano, mentre loro non ottengono ciò che gli spetta. L’impressione – proseguiva l’ex segretario di Stato – è che oggi tutti abbiano un motivo di malcontento. Anziché pensare in modo critico si cercano complici che condividano le nostre opinioni e ci incoraggino a ridicolizzare – si vedano i dibattiti nei talk show, ndr – le idee e le convinzioni in contrasto con le nostre». La forza dei populisti sta tutta nel dire ciò che la gente vuole sentire. Non sono loro a dirigere; hanno colto il verso dell’onda, la seguono, la rassicurano e le danno ulteriore spinta.
Nel libro è riportata una citazione di Adolf Hitler che dovrebbe indurci a riflettere su quanto sta accadendo, oggi, sotto gli occhi di tutti ma che viene ostinatamente sottovalutato: «I nostri problemi politici apparivano complessi. Il popolo tedesco non sapeva come affrontarli. Io invece fui in grado di ridurli ai minimi termini. Le masse capirono e mi seguirono». Poi emerge sempre la teoria del complotto che non è solo un modo per dare quelle risposte semplici, ma un mezzo per continuare a vivere fuori dalla realtà. Scrive Carter Hett a proposito della caduta della Repubblica di Weimar: «Milioni di tedeschi cercarono rifugio nelle teorie del complotto: era stata una “pugnalata alle spalle” e non una dura sconfitta militare a metter fine alla guerra». E non è forse un complotto nelle elezioni del 3 novembre, quello denunciato da Trump a suo danno? Ma nel saggio citato c’è un altro passaggio che sembra scritto oggi per Trump e i suoi sodali europei. «L’avversione nei confronti della realtà si traduceva in disprezzo per la politica, o meglio nel desiderio di una politica che fosse in qualche modo non politica. Gli avversari della democrazia, che predicavano una “politica apolitica” di unità e risurrezione, davano l’impressione di agire a un livello morale più alto. I fautori della repubblica sembravano spesso poco più che i difensori di un sistema corrotto. Da questo disprezzo per il “sistema”, alla fede in un leader provvidenziale capace di sollevare la nazione da questa impasse senz’anima, il passo era breve».
Ecco perché l’aggressione del Congresso è un fatto ancora più grave e preoccupante di ciò che costituisce di per sé: uno schiaffo alle istituzioni rappresentative della più grande democrazia del mondo. Negli Usa si è andati oltre la dialettica tra i due grandi partiti tradizionali. Sotto attacco oggi sono i repubblicani “legittimisti”, i traditori, i “badogliani”. I seguaci del Donald non hanno più nulla da spartire con il Gop. Probabilmente sono – come tutti i movimenti sovranpopulisti – un fenomeno trasversale della società americana, alla ricerca di risposte semplici a una realtà difficile e destabilizzata. Come avvenne per il fascismo in Europa, rappresentano una protesta contro certe degenerazioni dell’area liberal: la cancel culture, il razzismo degli antirazzisti, la caccia al wasp, il Metoo (inventarsi un “amen” al femminile è ben più di una stupidaggine), il “politicamente corretto” come pensiero unico e nuovo maccartismo. Joe Biden, per difendersi dalla destra suprematista, deve riuscire ad avere ragione di una sinistra che fugge anch’essa dalla realtà, fino a pretendere di reinterpretare e cancellare la propria storia.
Da oggi, tuttavia, il trumpismo come modo di fare “politica apolitica” entra nella vita quotidiana del vivere sociale e civile non solo degli Usa. È nata una destra che (come in passato la sinistra) si sente investita da un mandato popolare implicito, che non ha bisogno del conforto delle urne perché un risultato diverso da una loro vittoria può essere frutto soltanto di un complotto, di una congiura dei poteri forti (c’entrano gli ebrei?), o, com’è stato in Italia, del potere televisivo, prima, e del tradimento dei “grillini”, poi. Per fortuna, le forze dell’ordine a Washington, dopo un periodo di smarrimento, hanno ripreso il controllo della situazione. Lo stesso Trump, il quale aveva convocato e aizzato i suoi sostenitori, ha voluto dimostrare che è in grado di armarli e di disarmarli, di poterne comunque disporre per poter giocare con regole nuove. Per concludere, chi ha fatto zapping la sera dell’Epifania avrà notato un certo imbarazzo in molti frequentatori delle fumerie d’oppio dei talk show nel commentare le notizie che giungevano in diretta. «Trump ha preso 72 milioni di voti: se non ci fosse stato il Covid avrebbe vinto»; fino a elogiare la sua politica in risposta al clan democratico di Barack Obama e Nancy Pelosi e aver riportato l’America a essere di nuovo first sulla scena internazionale.
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