Ogni volta che ci passo, ed è quasi ogni settimana, è come un clic nella testa. Osservo l’olivo e i suoi rami, dolcissimi seppur di bronzo, e ricordo che le macerie, quella notte arrivano più o meno lì, a circa quattro metri. Il palazzo del Pulci non c’era più, solo massi, anche enormi, arredi, cose della vita. I vigili del fuoco erano lì sopra, messi in fila, quasi una catena. Fu un momento di silenzio surreale in quella fine del mondo: “Ecco, tieni, prendi, dai, via via …”. Si passavano un fagotto chiaro, un bombolotto di stracci, l’ultimo vigile della catena entrò nell’ambulanza che era riuscita ad arrivare fino in via dei Girolami. Poi sparì tra le sirene. Noi tutti si rimase lì. Muti, come muti eravamo da ore.

Fazzoletti bagnati sul naso, l’odore del tritolo, del sangue, della paura e della morte dentro le ossa, la pelle, il cervello. Sapevamo che in quel fagotto c’era una bambina e non poteva che essere la più piccola delle due sorelline. Si chiamava Caterina Nencioni. La speranza che fosse sopravvissuta a quell’inferno durò meno di mezz’ora. Aveva 50 giorni. Nadia, la sorella di 9 anni, il babbo Fabrizio, un vigile urbano, la mamma Angela, custode dell’Accademia dei Georgofili motivo per cui ebbe assegnato l’appartamento nella Torre, furono estratti dopo ore in quella lunga notte che non finiva mai. Era l’una di notte. Lavoravo come cronista di nera e giudiziaria alla redazione di Repubblica a Firenze.

Il lavoro finiva sempre tardi e cenare tra le 23 e la mezzanotte quasi la norma. Stavo guardando un film, “Sotto tiro”, Nick Nolte che fa il fotoreporter, il fronte sandinista, i ribelli, l’attore che sta per essere giustiziato… bum. Un boato enorme fa tremare i vetri di casa poco dopo Porta Romana, sconquassa la dolce notte di maggio. Partono sirene, allarmi, il centro storico piomba nel buio totale. I telefoni del “giro di nera” – polizia, carabinieri, vigili del fuoco e vigili urbani – non rispondono, occupati, staccati. Riesco finalmente a parlare con una stazione distaccata dei vigili del fuoco. “Probabile grossa esplosione di gas, in pieno cento storico, vicino agli Uffizi…”. Un veloce giro di telefonate con il capo della redazione di Firenze e i colleghi Fabio Galati e Gianluca Monastra. Non si capisce nulla. Claudio Giua, il caporedattore, ci dice “avviciniamoci il più possibile agli Uffizi…”.

Lascio il motorino vicino al Ponte Vecchio, e già davanti a palazzo Pitti vedo gente che cammina confusa, piangono, si stringono, qualcuno è a terra, spaventati, altri scappano, chiedo, non riescono a parlare, tengono le mani sulle orecchie. Ci saranno seicento metri tra ponte Vecchio e via dei Georgofili, stradine e vicoli che si conoscono a memoria e che invece non riconoscevo più: colonne di fumo, polvere, sirene, gente accovacciata in terra che chiedeva aiuto, che non sapeva dov’era. Non so dire quanto tempo fosse passato dalla prima esplosione. Di sicuro la zona non era stata ancora trincerata né messa in sicurezza. si vedeva qualche uomo in divisa che cercava di spingere le persone lontano, oltre l’Arno. Cos’era stato? Gas? Oppure? Ed era finita lì?

Via Lambertesca era coperta da una strana polvere, era tutto grigio, l’odore insopportabile, le fiamme, cadono tegole dai tetti. Si prova a prenderla un po’ più larga, in Chiasso del Buco si entra, anche in chiasso dei Baroncelli fino ad un “dove” irriconoscibile, via Lambertesca, appunto, all’angolo con via dei Georgofili. Quella che prima sembrava “nebbia” da qui è chiaro che sono macerie e polvere. La fine del mondo era arrivata a Firenze, a cento passi da piazza della Signoria. I colleghi junior, io, Fabio e Gianluca, rimaniamo lì, un cellulare in tre. Il caporedattore intanto ha avvisato Roma che è necessario ribattere perché “l’esplosione, se anche fosse gas, ha attaccato il cuore del Rinascimento”. I senior, si erano aggiunti Paolo Vagheggi e Franca Selvatici, vanno in redazione, in via Maggio, a scrivere. Noi restiamo lì, vedere, capire, annotare, restare lucidi. Non fu facile. Tutto è stato irripetibile. E indimenticabile. Metto qui in fila qualche frammento di quella notte. Quelli per me decisivi. Via via che si posa un po’ la polvere, cessano gli allarmi e turisti e residenti sono ormai lontani, resta il rumore dei generatori elettrici e delle pompe d’acqua, l’odore di qualcosa che è anche gas ma non solo e una montagna di macerie davanti agli occhi.

Il cratere lasciato dal Fiorino imbottito con 277 chili di esplosivo (tritolo, T4, pentrite, nitroglicerina) verrà fuori solo dopo giorni (3 metri di larghezza e due di profondità). Quella notte si vedono solo macerie e macerie e macerie. I periti scrissero che l’esplosione provocò “la devastazione del tessuto urbano del centro storico per un’estensione di ben 12 ettari, con un impatto bellico”. Alzando gli occhi, davanti a quella che era la torre del Pulci, ci sono finestre aperte e soffitti a cassettoni anneriti. Una casa affittata da studenti. I vigili del fuoco hanno provato a salvare Dario Capolicchio ma le fiamme avevano già mangiato la casa. Gas, solo gas? Dopo un po’ di tempo, non so dire quanto, ma prima che venga estratto il fagotto con i resti della piccola Nadia, cammina in questa devastazione il capo della Digos, Franco Gabrielli, con un paio di uomini. Hanno gli occhi all’insù, sono sgomenti, guardano la parete antistante all’accademia rimasta miracolosamente in piedi.

“Considera – riflettono – che l’esplosivo in questo imbuto di strade ha raddoppiato la potenza. E i danni”. La parete è bucherellata come una groviera. Fori concavi, tutti anche se più o meno grandi. “Ecco perché non può essere un’esplosione di gas. L’esplosione è stata esterna ai palazzi”. E solo una bomba può aver fatto quel macello. È stato forse il primo vero sopralluogo. Si attende il procuratore, Piero Luigi Vigna. Ha firmato alcune tra le inchieste più importanti di terrorismo e sequestri di persona. Prima di Vigna, s’intravede Gabriele Chelazzi, il suo sostituto “preferito” (senza nulla togliere agli altri che poi seguiranno le inchieste e i processi: Fleury, Crini e Nicolosi). Chelazzi si lascia avvicinare, sta camminando solo nel piazzale degli Uffizi, buio totale. “Lo senti cosa c’è sotto i piedi? Vetri, camminiamo su un tappeto di vetri. Hanno voluto colpire il cuore di Firenze, dell’arte, del Rinascimento”. Chi? “Non lo so ma…”. Ma un anno prima c’era stata Capaci, poi via D’Amelio e due settimane prima, il 14 maggio, in via Fauro a Roma, una macchina era stata imbottita di esplosivo per Maurizio Costanzo. Attentato fallito. Se Falcone diceva follow the money, Chelazzi ha sempre preferito unire i punti. Mi piace pensare che il primo momento in cui hanno unito i punti sia stato quando ho visti Vigna, Gabrielli, Chelazzi appoggiati al colonnato degli Uffizi, testa bassa, facce tese: quella notte cambiò le loro vite professionali.

Qualche flash back, andata e ritorno dall’angolo tra via Lambertesca e via dei Georgofili quella notte-mattina del 27 maggio 1993. Le parole mafia e Cosa Nostra presero tecnicamente cittadinanza sui fascicoli dell’indagine (strage di stampo mafioso) nel giro di un paio di settimane. Forse un mese. Chelazzi univa i puntini, appunto, ed aveva iniziato dal 1992. Quando due mesi dopo, la notte del 27 luglio 1993, prima a Milano e poi a Roma 3, il tritolo esplose in via Palestro e poi a San Giovanni e a San Giorgio al Velabro, la “linea” di Chelazzi disegnò una figura chiara: Cosa Nostra stava attaccando il cuore dello Stato, il patrimonio artistico e religioso e lo faceva fuori dalla Sicilia. Un salto di qualità senza precedenti. Circa sei mesi dopo – era ottobre – il procuratore Vigna convocò i giornalisti nel suo ufficio. Lo faceva raramente. In quel periodo un po’ di più. In quella stanza, c’erano tutti “i ragazzi” e “le ragazze” della sua squadra: Chelazzi, Crini, Nicolosi, Margherita Cassano (oggi procuratore generale in Cassazione) e Silvia della Monica che aveva passato le sue ai tempi del mostro di Firenze.

“Questa procura – ci disse – ha sollevato conflitto per la titolarità di tutte le stragi in continente di Cosa Nostra”. Vinse il procuratore Vigna, a parità di numero di morti (5 a Firenze e 5 a Milano), prevalse l’interpretazione che eravamo di fronte ad un unico disegno stragista, da via Fauro fino a San Giovanni passando per Milano. Non fu facile. I professionisti dell’antimafia nicchiarono: “Cosa ne sa Firenze…”. Iniziò così uno dei periodi più duri ed entusiasmanti di quella procura e di quella squadra di magistrati ed investigatori. Tutte eccellenze. Le indagini, l’arresto di Brusca, l’inizio della sua collaborazione, le indagini dal basso che misero in fila i nomi del gruppo di fuoco Giuseppe Barranca, Cosimo Lo Nigro, Gaspare Spatuzza, Francesco Giuliano e poi i mandati, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano. Un centinaio gli imputati chiamati nell’aula bunker di Firenze nell’ex convento di Santa Verdiana. In questa aula per la prima volta Giuseppe Brusca parlò del “papello” con le richieste che Cosa Nostra aveva presentato allo Stato per cessare la stagione delle bombe e delle stragi.

Ma torniamo a quella notte. Sono le quattro del mattino quando la catena di braccia in fila porta fuori il fagotto bianco con i resti della piccola Caterina. Appena 50 giorni. Albeggia. Sono stati sgomberati alberghi e abitazioni. Il centro storico di Firenze è un campo di battaglia. La polvere sta calando. Le fiamme sono spente. L’odore, quello no, è ovunque. La luce del giorno misura la tragedia. E la montagna di macerie. S’intravedono i poveri resti di vite che sono state felici: fotografie, quaderni, libri, peluche, abiti. Repubblica è uscita in prima pagina: “Bomba nel cuore di Firenze. Il sospetto su Cosa Nostra”. I giornali stranieri chiamano in redazione, “Firenze come Palermo?”. Il 16 gennaio scorso è stato arrestato l’unico boss che ancora mancava all’appello: Matteo Messina Denaro. I carabinieri e la procura di Palermo hanno voluto chiamare l’indagine “Operazione tramonto”. Tramonto è il titolo di una bellissima poesia scritta da Nadia, 9 anni, il 24 maggio, tre giorni prima di morire: “Il pomeriggio se ne va/il tramonto si avvicina/un momento stupendo/il sole sta andando via (a letto)/è già sera/ tutto è finito”. Probabilmente c’è ancora da scoprire su quegli anni. Non è finita. Tra i tanti insegnamenti di quei giorni e di quell’inchiesta c’è che esiste una verità storica e una processuale. Quasi mai coincidono.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.