Nessuno ne parla
La strage silenziosa degli homeless morti al gelo è il fallimento di tutti noi
Non possiamo prendere alla leggera la notizia sui senzatetto morti a causa del freddo: 25 nelle strade italiane in poco tempo. È uno scandalo inaccettabile! Nella Roma di fine VI secolo, Papa Gregorio Magno, quando gli fu comunicato che un uomo senza fissa dimora era morto per fame, reagì in questo modo come scrive un suo biografo: «Quel giorno Gregorio non volle celebrare la messa: “Oggi è venerdì santo” (giorno in cui non si celebra la messa), disse, “perché in quell’uomo è morto Gesù” e se ne fece una colpa personale come se lo avesse ucciso con le sue mani» (Giovanni Diacono, Gregori Magni vita 2, 29). Dovremmo celebrare 25 volte il Venerdì Santo, in Italia. E Papa Francesco, domenica 20 gennaio – era morto qualche giorno prima un “barbone” che stava al colonnato di San Pietro – all’Angelus fece suo questo episodio storico. Non si può tacere. E neppure stare inerti. Sarebbe complicità.
Purtroppo i morti per freddo, i senzatetto, non fanno notizia. Anche perché sono considerati come vittime collaterali di una situazione difficile come l’emergenza freddo. No, non sono vittime inevitabili. Non sono scarti comunque da eliminare. Sarebbe già un passo se provassimo vergogna per quanto è successo. E magari inizieremmo a non considerarli un fastidio, anzi come persone con le quali incrociare lo sguardo, chiedersi come mangeranno, come e dove vivono, perché sono caduti in una povertà così dura. Inizieremmo a capire che non debbono essere abbandonati e ancor meno scomparire in questo modo. Se sono in questa condizione non è – come spesso si sente dire – per colpa loro. Chi di noi ha piacere di non avere una casa? O comunque un luogo ove stare per ripararsi dal freddo?
Eppure loro esistono. Come anche le soluzioni esistono. Eccome! Basterebbe intanto accorgersi di loro. Fermarsi. Parlargli. Papa Francesco diceva anche di toccare le loro mani quando diamo qualche spicciolo. In realtà è davvero raro che la gente li guardi, e ancor meno che si fermi. In genere ognuno continua la sua strada. Ma lì, in quel tratto di strada, quell’uomo (quella donna) ci abita. È di qui che inizia la soluzione: fermarsi e cercare di capire. Si potrebbe dire, alla lettera, è questa la strada della carità, la via del Samaritano, la strada del prendersi cura di chi ha bisogno di aiuto. L’antica storia evangelica (quell’uomo non è chiamato “buono”, come in genere facciamo noi, era semplicemente “samaritano” uno che era pure inviso ai correligionari di Gesù) ci aiuta a capire anche il nostro oggi.
Quella pagina inizia con una domanda del dottore della legge: chi è il mio prossimo? “Prossimo” è una parola da riscoprire. Il dottore della legge intendeva chiedere chi avrebbe dovuto aiutare. Appunto, chi era il “prossimo”. La narrazione sembra indicare nell’uomo mezzo morto, appunto, il prossimo da aiutare. Ma al termine Gesù ne rovescia il significato: “prossimo” non è l’uomo mezzo morto, bensì il samaritano che si avvicina, che si fa prossimo a quell’uomo. Da notare che il termine prossimo è il superlativo della parola latina “proper” (vicino) e quindi significa “il più vicino”. Che rovesciamento! O anche quale arricchimento: la stessa parola unisce chi aiuta e chi è aiutato. Il samaritano (a differenza del prete e del sacrestano) sentì l’obbligo di avvicinarsi e prendersi cura sino a portarlo in un ostello e affidarlo perché potesse essere curato sino alla guarigione.
È una pagina da rileggere in questo tempo con attenzione. Durante la pandemia abbiamo visto vivere in questo modo la parola “prossimo”, anche a volte nel dramma della morte che ha visto medici e malati morire per aiutarsi a vicenda. Come anche ristabilirsi a vicenda. È così che si è semplicemente umani. Uomini e donne davvero. Chiunque è umano – non necessariamente “buono”, semplicemente umano – sente dentro di sé i sentimenti di quel samaritano: procurare una casa a chi non l’ha (è l’albergo della parabola) e un aiuto (l’albergatore) perché venga curato. La “carità” chiama alla responsabilità politica, ossia al coinvolgimento più largo per ridare una casa a chi non l’ha, una compagnia a chi è solo, una speranza a chi ha perso tutto. Va riscoperta – e presto – la responsabilità perché la società tutta possa garantire la dignità a tutti i suoi figli. Purtroppo, una cultura sempre più individualistica ci ha come polverizzati, atomizzati, separati, nebulizzati…Il poeta aveva avvertito: “nessun uomo è un’isola”. Ma lo siamo diventati. E le conseguenze amare sono sotto i nostri occhi, a partire dalla pandemia, frutto di una cultura esasperatamente individualista tesa unicamente al benessere individuale.
Ma torniamo al tema dei morti in strada per il freddo. Ripeto, dobbiamo sentirne tutti la responsabilità. E non è retorica. Deve emergere anche culturalmente l’oggettiva responsabilità che ci lega gli uni agli altri. L’esaltazione dei soli diritti individuali ci ha fatto dimenticare i rispettivi doveri a essi correlati. Tutti, a partire dai poveri, hanno il diritto a essere aiutati. E noi il dovere di aiutarli: siamo gli uni debitori dell’aiuto degli altri. E i più deboli vanno inclusi per primi. Certo, so bene che è davvero difficile eliminare la povertà. E chi ha esperienza “di strada” sa anche che esistono sempre persone problematiche. Molti infatti fanno difficoltà per accettare il recupero e il reinserimento: le loro ferite sono complesse, gravi, corporali e psichiche, e spesso si cronicizzano… Di nuovo carità e politica – o, se volete, diritti e doveri – sono chiamate a farsi carico di queste situazioni difficili.
Vanno combattute ingiustizie, disoccupazione, discriminazione… E con sollecitudine. Quando si entra nella spirale, non è facile uscirne. In questo senso l’indagine condotta dalla Federazione italiana organismi per le persone senza dimora, ha un grande merito: scuote le nostre coscienze, ricorda una grave ingiustizia sociale e punta il dito sull’indifferenza con cui guardiamo – e non vediamo – quanto accade davanti a noi. In un anno di pandemia abbiamo capito che le più colpite sono state le categorie più fragili: gli anziani, vittime inconsapevoli di un sistema di “case di riposo” oramai da ripensare e i giovani e giovanissimi, strappati dalla vita di relazione e dalla scuola. La pandemia ha mostrato la vastità dell’ingiustizia sociale: appena leviamo quel velo di benessere e di soddisfazione economica che domina la nostra vita, ci scopriamo “nudi”, senza risorse, indifesi e deboli. Indifesi e deboli soprattutto se pensiamo di essere soli o se pensiamo a dare soluzioni individuali ai problemi.
La soluzione alla pandemia incrocia necessariamente il prendersi cura gli uni degli altri. Certo, c’è bisogno delle risorse scientifiche per sconfiggere il Covid-19. Ma è altrettanto indispensabile l’impegno per una prossimità reciproca tra i popoli e le persone. A partire da coloro che sono abbandonati, appunto, come i poveri che vivono per la strada. Sono passati duemila da quando l’esempio del Samaritano sta davanti agli occhi soprattutto dell’Occidente. E abbiamo maturato idee ed esperienze proprio da quella ispirazione. Dovremmo finalmente – proprio a partire dai morti per il freddo – apprendere che la casa è un diritto, come il lavoro, come il dovere di accogliere ed essere accolti. C’è bisogno che questa “visione” torni a ispirarci. In una sua poesia, Karol Wojtyla scriveva: “l’uomo soffre soprattutto per mancanza di visione”. Aveva ragione.
Ci siamo fermati al presente degli interessi individuali o comunque particolari. Ma la pandemia e queste morti ci offrono l’opportunità di riprenderla e tradurla in azioni concrete. E abbiamo anche le risorse, la consapevolezza, la capacità di intervenire più e meglio rispetto al passato. La “prossimità” – nel suo duplice versante: unendo chi aiuta e chi è aiutato – può e deve ispirare il domani dopo la pandemia. Ma lo sarà se iniziamo da oggi, ripartendo senza dimenticare i dimenticati. Insomma, dobbiamo riaprire la frontiera della solidarietà – o della fraternità – per farla diventare uno stile di civiltà sin da ora. È nella forza dei legami umani che si riapre oggi il futuro. Per noi deve essere un punto d’onore.
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