La racconto per farci quattro risate
La strana telefonata del giornalista finto garantista: “Ho trovato il suo numero nelle chat di Palamara…”
Questa è bella e la racconto per farci quattro risate. Difendo una persona per bene, un magistrato, sbattuto sulla prima pagina di un giornale “garantista” che si chiede come sia possibile che un magistrato denunciato da una collega possa rimanere al suo posto, cioè a dirigere un tribunale che dovrà celebrare uno dei mille “processi del secolo” che la stampa italiana onora ogni giorno. Il succo è: ti hanno denunciato, come minimo te ne devi andare. Il cronista-garantista mi chiama dopo la pubblicazione dell’articolo per verificare la notizia. Cioè fa dopo, quello che avrebbe dovuto fare prima secondo le regole del suo mestiere; cosa di cui mi lamento dicendogli che a seguirle ci avrebbe guadagnato, visto che avrebbe appreso che la denuncia contro il mio cliente sta per essere archiviata poiché è totalmente infondata, e dunque il suo articolo, oltre che deontologicamente più corretto, sarebbe stato anche aggiornato considerato che la pseudo notizia di reato è di oltre un anno fa.
Peraltro, mi lamento, invocare “ragioni di opportunità” in ordine alla permanenza del mio assisto in quella sede giudiziaria per il solo fatto di aver ricevuto una denuncia mi pare un po’ in contrasto con la linea “garantista” del suo giornale; anzi, lo stuzzico, mi sembra più in linea con il modo di fare di quelle testate che omaggiano la cultura del sospetto sparsa a piene mani da quelli che dicono gli innocenti sono solo colpevoli che la fanno franca. Insomma alla fine gli mando una smentita che in verità pubblica sia pure annegandola sotto un titolo fuorviante di cui poi dirò. Ma questi sono particolari. La cosa simpatica, per modo di dire, è che il cronista-garantista, all’inizio della conversazione mi dice, meno simpaticamente, che mi chiama dopo aver avuto dal mio cliente il mio nominativo ma che il numero del mio cellulare se lo è trovato da solo «sulla chat di Palamara». Così, testuale.
Quando me lo dice, – chissà perché visto che i miei numeri si trovano sull’albo degli avvocati e sul web – scoppio a ridere. Gli dico, senza spocchia giuro, che tutto sommato non sono proprio sconosciuto come avvocato, sono anche uno che scribacchia su qualche giornale, poi qualche processetto l’ho fatto (sì lo ammetto, gigioneggio un po’ con la frase che pronunciano in genere avvocati famosi sul serio quando vogliono fare i modesti a parole ma in realtà vanno in cerca di complimenti…) e ho avuto anche l’onore di presiedere una associazione di penalisti, garantisti veri e sul serio. Insomma, gli dico che se scriveva il mio nome sul web per avere notizie su di me, così come ormai fanno anche i più umili ed ignoranti dei clienti quando devono scegliere un avvocato, si sarebbe risparmiato la fatica di sguerciarsi sulle chat del povero Luca, che ormai per qualcuno sono diventate le pagine gialle della sentina giudiziaria. Finita la conversazione ci rifletto un po’ e sono contrastato da pensieri antagonisti.
Il primo è frutto della debolezza dell’animo umano, perché più meno è questo: «Cavolo, sto nelle chat di Palamara, e allora, visto che non sono un magistrato, debbo per forza appartenere all’altra categoria dei suoi frequentatori, quelli potenti e famosi: attori, calciatori, politici e compagnia cantando». Pensiero di un secondo, purtroppo, perché in realtà non sono e non sono mai stato potente né famoso nel mondo che conta, sono solo stato per alcuni anni il presidente dell’associazione di cui sopra, che in qualche modo è la dirimpettaia dell’Anm, motivo per il quale con Palamara ci scambiammo il numero di cellulare. Ma, ahimè e per lo scuorno del giornalista garantista, mi sa che di chiacchierate via chat non ce ne è neppure una se non forse qualche invito a convegni. Quindi il primo pensiero tramonta subito, scalzato dalla dura realtà secondo la quale non posso aspirare ad aver congiurato con il mostro in ordine a carriere favori e altri benefit in qualità di personaggio in vista. Neppure i biglietti per vedere la Roma che, confesso, se avessi saputo con quale facilità se li procurava magari un pensierino ce lo avrei fatto.
Il secondo pensiero è invece più serio. «Ma in che mondo viviamo se uno, prima di chiamarti, verifica, come ai tempi del Minculpop, se per caso c’è qualche immondizia da ravanare sul tuo conto. E poi lascia cadere soavemente «il suo numero l’ho trovato sulla chat di…». Sì, che schifo di mondo è questa Italia, dove ormai anche i ragazzini delle medie si registrano le telefonate e le conversazioni per ricattarsi l’un l’altro. Che postaccio sta diventando questo paese dove negli studi degli avvocati, all’ingresso, campeggia, assieme alle regole anticovid, l’avvertenza per i clienti di lasciare il telefonino in segretaria visto che è più facile intercettare un cittadino italiano che non fargli pagare le tasse. Che mondo è quello in cui i giornalisti consultano le chat di una persona mettendo all’indice tutti quelli che vi compaiono, soprattutto se sono magistrati, scambiando questo inguardabile modo di fare con la sacrosanta richiesta di risanamento della vita interna della magistratura. Siamo tutti immersi nella cultura del sospetto, anche molti di quelli che si proclamano seguaci delle idee liberali in tema di giustizia; pure quelli che fanno le bucce alla magistratura e la morale ai pm, salvo poi comportarsi da sbirri di quart’ordine con gli avversari del momento.
Questa dilagante voglia di delazione, di controllo occhiuto, tocca molti ambienti e prescinde dal grado di cultura: è un abito mentale nazionale. Inutile ricordare ai molti epigoni di questo modo di essere che la storia dell’umanità, oltre che la cronaca di questi ultimi tempi, dimostra che questa sub cultura di solito travolge e porta sulla ghigliottina, quella vera o quella mediatica 2.0 dei tempi odierni, poiché in un mondo di epuratori alla fine spunta sempre il puro che ti epura. Insomma, per farla breve, dopo essermi preso in giro da solo sul fatto di non poter neppure sfruttare le chat di Palamara per far finta di essere uno che conta, ho finito la serata un po’ depresso pensando a che mondaccio cane lascerò in eredità ai miei figli.
La mattina dopo mi sono svegliato, ho comprato il quotidiano garantista per vedere se avevano dato atto della mia nota e ho letto il titolo in prima pagina “Molestie, il giudice nei guai era nelle chat di Palamara”. Inutile dire che poi, nel testo dell’articolo, non era riportato niente di compromettente al proposito di quelle chat, solo un invito ad una cena, per giunta cortesemente rifiutato. Solo uno schizzo di fango gratuito da parte di chi d’abitudine allude nei titoli gridati a cose che poi non risultano neppure nel testo su cui campeggiano. M’è venuta voglia di mandare un’altra precisazione chiedendo di specificare che nelle chat di Palamara «c’è anche il suo avvocato», ma ho soprasseduto: i cultori del sospetto non sono spiritosi, meglio chiedere una rettifica riservandosi una querela per il cliente.
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