Il canone letterario e la modernità
La tradizione letteraria non è morta, i nuovi autori sono pop ma ancora degni
Quali sono le opere letterarie attuali che meritano di durare e che saranno parte dei programmi scolastici futuri? Veronesi o Fabio Volo, la Mazzantini o Albinati, De Cataldo o Lucarelli, la Mazzucco o Piccolo? Chi lo decide e con quali criteri? È la famigerata questione del canone letterario, di un corpus di libri e autori in continua evoluzione, esposto a oscillazioni e modificazioni, e nel quale si riconoscono i valori identitari di una nazione. Al mio liceo la triade poetica del ‘900 era Ungaretti, Montale e Quasimodo, oggi Quasimodo è sparito, e Saba ha sopravanzato Ungaretti. Di Pavese e Vittorini, scrittori allora al centro del canone, non si parla più, mentre autori un po’ appartati come Parise e Landolfi, grazie allo sdoganamento da parte dell’Adelphi, sono ormai nel mainstream. Chi stabilisce il canone?
Fino a ieri la cosiddetta “comunità ermeneutica”, formata da studiosi, critici, storici della letteratura, ma in tempi in cui ogni sapere viene svalutato – e in Rete uno vale uno – è saltata l’idea di un canone unico, calato dall’alto: ci sono invece tanti microcanoni, quello dei critici certo, ma anche quello dei blog letterari, quello dei gruppi di lettura, quello di Radio3, quello dell’editoria, quello sempre più preminente del mercato. Entro questo multicanone entra a buon diritto la letteratura migrante, finora tenuta ai margini. Forse la disseminazione e dispersione del canone è la premessa della sua dissoluzione, ma d’altra parte è l’orizzonte del nostro tempo, delle nostre società multietniche e pluralistiche. Di questo si è discusso a Castelsardo, meraviglioso paese di mare sulla costa settentrionale della Sardegna, che somiglia a un veliero che sta per mollare gli ormeggi – a debita distanza dal Billionaire – , all’interno del festival Un’isola in rete, promosso dalle edizioni Inscibolleth e dal Centro ricerche filosofiche e letterarie di Sassari. Raffaele Manica ha manifestato la sua idiosincrasia per ogni discorso sul canone, che introdurrebbe nella letteratura un elemento ad essa estraneo (aspirazioni egemoniche, considerazioni tattiche…).
Vero, ma in ogni caso un canone, anche se implicito e involontario, viene abbozzato da qualsiasi discorso critico. Nella mia attività di recensore disegno mappe, gerarchie, tavole di di valori, e devo farlo responsabilmente, argomentando le mie scelte, come peraltro ha sottolineato al convegno Massimo Onofri. Se i critici rinunciano a indicare un canone allora davvero resta quello del mercato e del successo. Giorgio Ficara ha insistito su una interruzione della continuità della tradizione: molti scrittori attuali sembrano nati da se stessi, non hanno padri, modelli, maestri (a volte i modelli li trovano nel cinema o nel rock) e ciò si rifletterebbe nella loro prosa, desolatamente semplice, appiattita sulla lingua della comunicazione. Va bene, però tanti altri romanzi di oggi ci presentano invece una scrittura densa, fortemente espressiva, ricca di umori, anche se – paradossalmente – gli autori ignorano il nostro passato culturale. Può darsi che la tradizione operi a loro insaputa, e magari si riverberi su di loro anche in modo indiretto, a partire da suggestioni e stimoli provenienti dal pop. Suggerirei di dilatare i confini della letteratura verso il graphic novel, il fumetto, la canzone, la fiction TV.
Se restiamo sul piano dell’immaginario è indubbio che Altan o De André o certe serie televisive recenti hanno riplasmato l’immaginario collettivo, dimostrando una inventività, una capacità di interpretazione della società, una energia visionaria, una sottigliezza psicologica, etc., tutte attitudini che certo fanno parte della letteratura. Se invece ci limitiamo alla parola scritta allora è evidente che la letteratura è un’altra cosa, ed è fatta essenzialmente di «buon uso delle parole, grado primo di qualsiasi immaginazione formale» (come una volta scrisse Giovanni Raboni). E anche se, lo dico di passaggio, alcune riflessioni estreme, come quella della storica dell’arte Rosalind Krauss, ci dicono che siamo entrati in una fase “postmediale”, in cui all’interno di ogni linguaggio il medium diventerebbe secondario. Il punto è che proprio la lingua del romanzo per sua natura si presenta come impura, meticcia, attinge continuamente al basso e all’universo dei media, a gerghi e idiomi popolari, ai detriti linguistici, ai neodialetti e al vernacolo (tutti i grandi romanzieri italiani infatti sono stati accusati di “scrivere male”, da Svevo a Moravia, fino ad Ammaniti).
Ecco allora che – guardando i romanzi italiani usciti negli ultimi anni (contaminati spesso con il saggio, con il diario, con il memoir, con il reportage) – quella linea della nostra tradizione non ci apparirà più fatalmente spezzata, ma invece capace di rinnovarsi e rigenerarsi, anche se ciò dovesse avvenire per vie un po’ misteriose (che dovranno essere esplorate da una critica attenta, non superciliosa né tradizionalista, capace di allargare i confini del letterario). Può accadere perfino che uno scrittore esordiente, dotato di “immaginazione formale”, ignori Bassani e abbia appreso il gusto di raccontare storie attraverso uno stile personale guardando Tarantino. Su un punto però tutti i partecipanti al convegno hanno concordato: nonostante i riposizionamenti dell’immaginario letterario questa nostra lingua italiana – «tanto perfetta quanto immensa» (Leopardi) – è un bene che va coltivato con cura, e che la letteratura resta pur sempre il luogo eletto dove tale compito continua a svolgersi.
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