La continua lotta per il predominio
La tripartizione dei poteri è solo un ricordo: rimossa la teoria di Montesquieu, dal caos istituzionale nasce l’assolutismo
Gli scontri tra esecutivo, legislativo e giudiziario minacciano l’efficacia delle istituzioni democratiche

Per come si sono messe nel tempo le cose, oggi la tripartizione dei poteri – teorizzata da Montesquieu nel suo De l’esprit des loix, pubblicato nel 1748 dopo 14 anni di lavoro, riflessione, revisione e stesura – assomiglia più alla plastica rappresentazione di un conflitto latente che alla pacifica soluzione ordinamentale di attribuzioni istituzionali. “Il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente”: il filosofo francese era partito da questa considerazione per consegnare ai posteri una soluzione passata alla Storia come teoria della tripartizione dei poteri di uno Stato. Una sintesi efficace, messa a dura prova dalle evidenze dei fatti ricorrenti. Gli sconfinamenti tra esecutivo, legislativo e giudiziario sono stati e sono ancora all’ordine del giorno, una continua diatriba che ha assunto nel tempo le sembianze di una vera e propria lotta per la primazia.
Nei Paesi democratici, l’equilibrio tra i poteri dello Stato esprime coesistenze e dissonanze ma prevalentemente si ricompone in funzione di un interesse superiore: la rappresentanza delle tutele e degli interessi dei cittadini, la sovranità popolare, il senso civico che anima le istituzioni. Ma non sempre e non ovunque. Si può affermare che sussiste una sorta di regime di concorrenza tra organi legislativi, governo e magistratura, e non è detto che le sbavature e le reciproche interferenze depongano per una nobiltà delle aspirazioni. Se i “poteri” fossero prima di tutto “servizi”, la contemperanza delle rispettive primazie avrebbe una connotazione fisiologica, si alzerebbero i piani dell’etica dei princìpi e si abbasserebbero le altezze delle aspirazioni a sovrastare gli altri organi, debordando.
Nel valutare le discrepanze e le discussioni che emergono dagli scontri tra i tre poteri dello Stato – così come configurati nella teoria di Montesquieu e applicati nella realtà descritta da vicende emblematiche – siamo portati in genere a cercare gli aspetti “oggettivi” delle situazioni, come se fossero il vero discrimine per attribuire a essi verità o mistificazioni. In realtà, non sempre è così perché l’oggettivizzazione della realtà trova i propri limiti nella soggettività dei suoi protagonisti. Sono i comportamenti umani che nobilitano o umiliano le funzioni, le attribuzioni e le competenze dei rispettivi ruoli. E il protagonismo – appunto – è una caduta di tono ricorrente.
Nelle moderne democrazie, la personalizzazione ideologica e l’autoreferenzialità sono due vulnus che affliggono la tripartizione dei poteri, sovente la poca lungimiranza e la scarsa considerazione delle competenze reciproche degenerano in diatribe strumentalizzate più per erigere barricate e confini – allo scopo di ridimensionare le ragioni altrui a una residuale marginalizzazione – che per cercare una lungimirante ed equa soluzione ai problemi e alle questioni emergenti in una società complessa. C’è il timore che ci si debba rassegnare a questa contesa ricorrente, poiché ciascuno dei tre poteri dello Stato persegue la piena realizzazione dei propri compiti istituzionali intesa come un dovere funzionale connesso al ruolo esercitato: la giustizia si esprime su princìpi di diritto che non intende contemperare, declinando verso una mediazione con la politica. Che a sua volta reclama – a livello legislativo ed esecutivo – una sorta di primazia nella gestione della cosa pubblica, spesso autoproclamandosi a interprete e testimone del pensiero collettivo, addebitando alla magistratura un peccato di astrazione e contestando le sentenze come paradosso lontano dalla realtà, secondo il noto aforisma “summum ius, summa iniuria” (Cicerone – De officiis, I, 10, 33).
Nulla di tutto ciò accade nei regimi autocratici, che celebrano l’assolutismo del potere nella tirannia, la quale riassume in sé una concezione totalitaria della cosa pubblica, esercitata da una sola persona e dalla cerchia dei suoi oligarchi, dove la tripartizione pensata da Montesquieu è mascherata, eterodiretta o non esiste del tutto. Questa forma di degenerazione del potere, posto nelle mani di un dittatore, dissolve e vanifica quella sorta di controllo incrociato che nelle democrazie viene esercitato direttamente o indirettamente dagli organi della politica e della giustizia, e che a volte è deprecato come forma di decadenza autoreferenziale e paralizzante del potere. Nulla al confronto di ciò che accade nei regimi: forse Montesquieu ha voluto insegnarci che una democrazia imperfetta è pur sempre migliore del più coercitivo assolutismo.
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