Nessuna rivoluzione in Turchia, almeno per il momento. Il primo turno delle elezioni non consegna al Paese il nome del prossimo presidente. E Recep Tayyip Erdogan – che si è fermato a poco più del 49 per cento dei consensi – dovrà quindi di nuovo vedersela con Kemal Kilicdaroglu nel secondo turno del 28 maggio. Un ballottaggio al quale il presidente turco arriva con un bottino non trascurabile di circa due milioni e mezzo di voti in più rispetto al suo sfidante, ma soprattutto con un’incognita: i nazionalisti del “terzo incomodo Sinan Ogan. Questi, con il suo sorprendente 5 per cento, rappresenta infatti quasi lo stesso numero di elettori che divide Erdogan e Kilicdaroglu.

Ed è quindi chiaro che entrambi i contendenti al trono di Ankara cercheranno di pescare nel bacino elettorale più nazionalista, vero ago della bilancia di una sfida che si giocherà voto su voto e che già solo per questo motivo rischia di rovesciare molte certezze. Al momento, infatti, l’unico dato che appare scontato è che entrambi i leader al ballottaggio vorranno convincere gli elettori di Ogan puntando sul tema a loro più caro: il rimpatrio dei rifugiati siriani. Uno scenario che inevitabilmente può portare a dei cortocircuiti. Da una parte Erdogan, fautore e responsabile dell’arrivo di milioni di siriani dal confine meridionale, dovrà smentire sé stesso offrendo il modo a queste persone di tornare in patria. Lo farà partendo dalla normalizzazione dei rapporti con Bashar al Assad.

Un processo non a caso già cominciato in questi mesi, ma che rischia di provocare diversi punti interrogativi se si pensa alle operazioni militari turche proprio in territorio siriano e ai miliardi dati dall’Unione europea per bloccare il traffico di esseri umani. Dall’altra parte, Kilicdaroglu, alleandosi con chi chiede rimpatri forzati, sarebbe costretto a sottoscrivere promesse molto radicali, sconfessando la sua rassicurante immagine internazionale di “Gandhi turco”. Inoltre, la proposta di Ogan, cioè il voto dei suoi sostenitori in cambio della rinuncia a fare concessioni ai partiti curdi, sembra difficile che possa essere accolta ora che l’opposizione non deve perdere alcun elettore del primo turno. E domenica si è visto chiaramente come le province curde siano essenziali nella geografia elettorale per provare a sconfiggere il Sultano.

I risultati del primo turno e delle elezioni parlamentari hanno infatti mostrato un Paese non solo spaccato, ma anche cristallizzato e restio alle rivoluzioni. Le roccaforti dei singoli partiti sono rimaste praticamente invariate. Erdogan ha stravinto nella Turchia profonda, in particolare l’Anatolia e tutta la costa del Mar Nero, ribadendo il legame quasi indissolubile tra la sua figura e il centro geografico della Repubblica turca. Kilicdaroglu si è confermato nelle province mediterranee e dell’Egeo, ha strappato per pochi voti le grandi città e ha conquistato soprattutto il sud-est del Paese grazie ai voti che invece, alle elezioni per il parlamento, si sono riversati sui movimenti filo-curdi. Lo scenario era prevedibile. Tuttavia, i sostenitori del maggiore competitor del presidente si aspettavano probabilmente qualcosa in più, in particolare nella capacità di vincere in qualche distretto dell’Akp. Questo generalmente non è avvenuto, e lo si vede dal fatto che Erdogan, pur con un consenso eroso rispetto alle scorse elezioni, è riuscito a mantenere la maggioranza anche per questa nuova legislatura.

Un elemento che non è da non sottovalutare in vista del ballottaggio. Erdogan, infatti, se vincerà anche il secondo turno, avrà la presidenza dopo che si è già garantito un parlamento fedele. E questa è una delle argomentazioni che può servire alla propaganda dell’attuale presidente per convincere gli elettori a sostenerlo anche tra due settimane. Alcuni osservatori ritengono, proprio a questo proposito, che i cittadini meno convinti della bontà delle istanze di Kilicdaroglu potrebbero scegliere di non votare o di sostenere Erdogan per evitare un condominio difficile tra presidente della Repubblica e parlamento. Cosa che rende difficile la sfida del candidato dell’opposizione, il quale, oltre a dover recuperare almeno due milioni di voti di scarto e sperare che alcuni elettori del Sultano non votino e convincere i nazionalisti, deve mostrare la capacità di governo e di coesistenza con partiti che sono totalmente legati all’attuale capo dello Stato e distanti dal laicismo e dalle istanze delle minoranze. In caso di transizione da un leader all’altro, quindi, non solo lo Stato profondo e la burocrazia sarebbero legati al predecessore, ma lo sarebbe anche la maggioranza parlamentare, che, dopo un’elezione con un’affluenza elevatissima, ha la consapevolezza di rappresentare un consenso radicato.

Intanto, mentre la Turchia attende il 28 maggio per decidere il proprio destino, anche il mondo osserva con attenzione cosa accadrà ad Ankara. Il punto interrogativo riguarda in particolare la politica estera, una delle principali armi di propaganda del Sultano in questi decenni al potere ma anche un meccanismo estremamente complesso che risulta ormai scolpito nella stessa strategia turca. Erdogan, infatti, non ha solo cercato di plasmare la Turchia a sua immagine e somiglianza, sciogliendola dal kemalismo che l’aveva forgiata dall’inizio della Repubblica. In questi anni, il presidente turco ha anche costruito una nuova immagine del Paese nel mondo, con una politica estera eclettica, spesso anche contradditoria, ma certamente capace di far risorgere un senso di potenza e autonomia strategica che fa ormai parte dell’idea stessa di Turchia. La sua capacità di unire istanze islamiste e kemaliste, neo-ottomane e panturche, filo-Nato e filorusse, sfidando i vicini ma allo stesso tempo cercando nuove partnership, ha rappresentato un gioco che ha unito istanze talmente diverse che oggi anche i suoi rivali difficilmente potrebbero sconfessare facendo una clamorosa marcia indietro. Ed è forse questo il grande dubbio sul futuro del Paese.