La conferma dei sospetti turchi è arrivata con le parole del ministro dell’Interno, Ali Yerlikaya, che ieri, dopo meno di un giorno dall’attacco, alla Turkish Aerospace Industries, ha annunciato il nome dei due attentatori. L’uomo era Ali Orek, noto con il nome di battaglia di Roiger. L’altra, la donna, si chiamava Mine Sevjin Alcicek. E secondo quanto dichiarato da Yerlikaya, erano entrambi membri del Pkk, il movimento dei lavoratori del Kurdistan che però non ha rivendicato l’attentato che ha sconvolto la provincia di Ankara.

Il grande nemico del Sultano

Il governo turco non ha mai avuto davvero dubbi. Qualcuno all’inizio ha mosso dei sospetti anche sullo Stato islamico. Ma per Ankara, l’attacco terroristico contro la sede della Tai ha sempre avuto una sola matrice, quella dei separatisti curdi. Per Recep Tayyip Erdogan si tratta del ritorno di uno dei suoi grandi incubi. Quello che insieme alla rete del predicatore Fethullah Gulen, morto di recente, è da tempo il grande nemico interno del “Sultano”. Lo si è capito dai sospetti lanciati già nelle prime ore successive all’attacco, quando molti avevano già fatto intendere che le indagini puntavano ai curdi. E lo stesso Yerlikaya aveva detto che l’azione era “molto probabilmente collegata al Pkk”. Ma lo si è visto anche dalle operazioni militari messe in atto nella notte tra mercoledì e giovedì. I caccia turchi hanno martellato le basi curde sia nel nord della Siria che nella parte settentrionale dell’Iraq. Il ministero della Difesa ha parlato di 47 obiettivi “terroristici” colpiti nei raid aerei e di 59 “terroristi neutralizzati”, compresi due “leader”. E l’impressione è che questa possa essere l’inizio di una nuova resa dei conti tra Ankara e il suo eterno nemico.

Dalla Siria, le Forze democratiche siriane (le Fds) hanno denunciato la morte nei raid di 12 civili. Un’accusa grave, specialmente perché arriva da una forza – curda ma anche araba – che per gli Stati Uniti è stata, e continua a essere, un alleato nella guerra allo Stato islamico. Ma Erdogan ha sempre chiarito di non fare distinzioni, specialmente in quell’area nordorientale della Siria. E lo conferma il fatto che i jet di Ankara hanno colpito al di fuori dei confini turchi, prendendo di mira non solo il Paese di Bashar al Assad, ma anche il Kurdistan iracheno. Due regioni che per Erdogan sono fondamentali, e che da anni sono interessati dai bombardamenti dell’aeronautica turca. Assad ha dovuto nel tempo chiudere un occhio, anche perché quelle forze amiche degli Stati Uniti non rappresentano di certo delle alleate per il governo di Damasco.

I rapporti con l’Iraq

Più vive sono state le proteste di Baghdad e di Erbil, capitale di quel Kurdistan iracheno dove pochi giorni fa si sono tenute le elezioni legislative in cui sembra assicurata la vittoria del Partito democratico del Kurdistan (Pdk) della famiglia Barzani. Ma il “sultano” ha più volte dimostrato di ritenere essenziali i rapporti con l’Iraq. E non è un caso che quest’anno si sia recato sia a Baghdad che nella stessa Erbil. Un viaggio rivoluzionario per l’agenda estera di Ankara, ma che ha messo in chiaro gli interessi turchi, quelli iracheni, quelli dei curdi nel nord del Paese, e che ha ribadito anche le divergenze in seno ai movimenti dei diversi Kurdistan.

La visita in carcere

Erdogan conosce bene queste differenze di vedute interne ai movimenti curdi. E molti osservatori guardano con attenzione anche a quello che è accaduto in Turchia prima e dopo l’attentato contro l’industria bellica del Paese. Poche ore prima dell’attacco, il capo del partito di ultradestra Mhp, Devlet Bahceli, alleato di Erdogan e nazionalista che ha sempre chiuso le porte al dialogo con il Pkk, ha invitato Abdullah Öcalan a parlare in Parlamento. Il leader curdo, in carcere a Imrali dal 1999, ieri ha ricevuto la prima visita dopo 43 mesi di isolamento. E durante l’incontro con il nipote e parlamentare Omer, Ocalan avrebbe fatto una prima apertura alla fine della lotta armata. “Se si verificano le condizioni, ho il potere teorico e pratico di muovere questo processo dal terreno del conflitto e della violenza al terreno giuridico e politico”, ha detto il vecchio leader separatista.

Qualcosa si muove, quindi, anche nei rapporti tra Öcalan e le autorità di Ankara. E ora tutti osservano con attenzione le mosse dei due protagonisti, e cioè del presidente turco e dello storico capo del Pkk. L’attentato di mercoledì potrebbe avere chiuso ogni porta al dialogo. Ma l’apertura fatta dal carcere potrebbe essere la prova che Öcalan vuole continuare a trattare.