Sono state nuovamente ore di guerriglia urbana quelle di ieri a Bruxelles. Da una parte gli agenti in tenuta antisommossa e, dall’altra, gruppi di agricoltori che hanno lanciato petardi e patate (una curiosa forma di “arma biologica”…) contro le sedi delle istituzioni comunitarie e versato letame, in un ennesimo sussulto della «protesta dei trattori» già ampiamente andata in scena nelle scorse settimane. Una contestazione che rivela un grumo di contraddizioni nel quale torti e ragioni, nodi problematici reali e corporativismo e vittimismo tendono a mescolarsi in maniera quasi inscindibile. E che evidenzia come si stia altresì assistendo a una «rimaterializzazione» dei conflitti politici intorno a questioni assai tangibili, a partire da quelle evocate da queste proteste del mondo rurale (in primis contro la Pac europea), dalla valorizzazione economica delle produzioni agricole all’inflazione e i costi dell’energia. Il mondo rurale esprime insofferenza da tempo: i problemi senza dubbio esistono e sono tangibili, salvo fingere di dimenticare che le risorse investite dall’Europa – ovvero quelle di tutti i contribuenti – a beneficio delle minoranze agricole sono state gigantesche (se non esorbitanti). E se i problemi dei coltivatori diretti più piccoli risultano, appunto, effettivi, non si può bellamente ignorare il trasferimento finanziario massiccio che la fiscalità generale europea (chiamiamola così…) ha operato a beneficio di questa minoranza di produttori.
Il conflitto politico
Queste “insurrezioni” (o “insorgenze” di assai contenute moltitudini, come direbbero gli adepti del negrismo) costituiscono delle jacqueries postmoderne, intrise di modalità ribellistiche che esplodono perlopiù senza una regia e un’organizzazione predefinita in presenza di un problema di mancata rappresentanza di chi si solleva, oppure quando è in gioco qualcosa di particolarmente rilevante. Da sempre la politica è, infatti, rappresentanza di interessi oppure promozione di ideologie (o visioni ideali). Con gli anni Ottanta e Ottanta del XX secolo, all’interno delle società occidentali postindustriali fattesi via via sempre maggiormente affluenti e benestanti, il conflitto politico si è spostato nel campo dei valori postmaterialisti (come li aveva etichettati Ronald Inglehart). In questo ambito allora inedito le poste in palio delle battaglie politiche sono andate a coincidere con l’allargamento dei diritti soggettivi e individuali e l’accettazione a pieno titolo dei nuovi stili di vita e di consumo.
Il blocco dell’Unione
Sono entrati così nel cono d’ombra quelli che erano stati tradizionalmente gli oggetti dello scontro, vale a dire le questioni materiali e la lotta per l’accumulazione o la redistribuzione della ricchezza. Interessi di tipo materiale che vediamo ritornare prepotentemente sulla turbolenta scena politica di questi ultimi tempi, come nella protesta dei trattori, giustappunto. Prima i gilet gialli e, adesso, quelli verdi, in una Francia sempre più deindustrializzata, che si contrappongono alla politica macronista esprimendo rabbia per la diminuzione dei redditi e dello status delle periferie e delle campagne al cospetto delle grandi aree urbane. E sembrano essere sostanzialmente riusciti a edificare una “linea Maginot”, anzi una “grande muraglia”, di fronte alla quale si fermano quel gigante democratico incompiuto che è l’Unione europea (sotto la forma della sua Commissione) e lo stesso presidente transalpino, pronti ad accorrere per soddisfare le loro istanze alla vigilia dei vari appuntamenti elettorali. In buona sostanza, l’erede della Ceca e dell’Euratom si arresta davanti ai dazi sul grano ucraino invocati a gran voce dai contadini in rivolta dei Paesi membri. Ed Emmanuel Macron si dichiara pronto a mandare i boots on the ground dei soldati francesi in Ucraina, ma compie una precipitosa ritirata accondiscendente davanti ai gilet verdi di casa sua.
Nella crisi dei corpi intermedi
Alzare la voce e protestare in maniera muscolare, dunque, paga, se si è minoranze organizzate. Ovvero, nella crisi dei corpi intermedi, al cospetto dell’incremento significativo dell’astensionismo e della volatilità elettorale, quei gruppi minoritari che possono garantire pacchetti di voti e attività continuativa di pressione diventano automaticamente detentori di un potere di veto e di un’influenza considerevole – ben superiore al loro peso specifico – su una politica sempre meno rappresentativa e incapace di abbozzare progetti di realizzazione dell’interesse generale. Lasciando praterie a quelle «minoranze rumorose» che, nella grande maggioranza dei casi, forniscono i loro bacini di consensi ai tanti imprenditori politici del neopopulismo in circolazione.