Il dibattito
La vera sfida del socialismo è capire perché le politiche di uguaglianza sono fallite
Le conseguenze della dissoluzione del capitalismo storico forse non sono state ancora delineate sino in fondo (cioè al livello di una mutazione di paradigma senza eguale come quella presente). Ora che le dinamiche autoreferenziali della finanza ha portato ai massimi gradi di ebollizione, fermentazione, l’impatto delle persone non più con il loro padrone o con il loro lavoro ma con se stesse, la loro carne e le sue necessità, precipita in nulla la formula di comodo, eppure di così clamorosa lunga durata, con cui l’essere umano – meglio: chi dell’essere umano s’è fatto voce; il “noi” che s’è fatto padrone della prima persona singolare – ha potuto scaricare per così lungo tempo sulla disumanità del capitalismo, la natura sua propria di essere vivente in stato di necessità e desiderio di sopravvivenza.
E allora la diversa chiave critica con cui procedere non dovrebbe immediatamente saltare alla qualità dei mutamenti in corso, primo fra tutti l’orizzonte post-antropocentrico a cui in effetti De Giovanni mi pare in qualche modo alludere, implicitamente rimandando alla natura, reale e fantasmatica, dei linguaggi digitali. Ma dovrebbe piuttosto riuscire a costruire un essenziale per quanto tardivo riconoscimento delle ragioni per cui le politiche storiche di uguaglianza non sono fallite per causa soltanto dei loro attori sociali (ceti, organizzazioni e via dicendo), ma sono venute meno, sono state sfinite, perché ad essere sbagliata era proprio la base teorica su cui tali attori si sono ostinatamente mossi. E non è detto che – senza peraltro neppure un annuncio di futuro a conforto – mancassero di strumenti per pensare diversamente da quanto hanno pensato e creduto. Da quanto abbiamo pensato e voluto.
E persino da quanto lo stesso pensiero moderno, quello più antipolitico o impolitico, abbia a tratti suggerito. Ma se la storia delle “alternative” di azione e pensiero contro la disuguaglianza è andata per altro verso, altra direzione, questo vuol dire che c’era di mezzo un corpo umano e sociale che, per una parte, desiderava immediata soddisfazione e, per un’altra parte, desiderava non perdere i propri acquisiti diritti. Per questa ragione Fausto Bertinotti è intervenuto a seguito di De Giovanni con un titolo strillato sì ma in direzione contraria, più contraddittorio e dunque più politicamente sofferente: “Sì, il Novecento è finito. Ma senza lotta di classe non si vince l’ingiustizia”. E ci sono diversi filoni di pensiero – penso a Michele Mezza e Sergio Bellucci – che in questi tempi si stanno forzando a trasferire la politica dei rapporti di potere dalla “lotta di classe” alla lotta di attori sociali decisi a negoziare fini e contenuti degli algoritmi. Sempre ancora si tratta di rapporti proprietari, sfruttamento del lavoro, equa distribuzione della ricchezza.
Proprio al momento di congedare questo mio testo, ho visto riprendere il prezioso lavoro storico-teorico portato avanti da Aldo Schiavone (questa volta il suo saggio Progresso appena pubblicato da il Mulino) in una recensione di Roberto Esposito su “Robinson” (16 maggio), che ne condivide l’assunto antropologico e insieme ne prende in qualche misura le distanze sul piano filosofico. Come per de Giovanni – seppure, tra le righe, in gran parte anche per Esposito – lo scenario di partenza, la situazione da affrontare, è la difficoltà a “sopravvivere dei regimi democratici” a fronte di uno “straordinario salto tecnologico”. Il pensiero di Schiavone funziona, per il primo, da apertura di quei nuovi orizzonti tra presente e futuro per i quali vale la pena rinnovare senza inutili nostalgie o ripensamenti tutto l’armamentario politico del passato. Così come, per il secondo, vale da buona chiave di lettura degli inediti progressi della biotecnologia, in grado di realizzare un clamoroso avvicinamento tra natura della specie umana e natura del mondo vivente.
Di più: la possibilità che “l’essere umano, anziché ciò che è, potrà diventare ciò che vogliamo sia”. È in qualche modo la speranza di quanti, come ad esempio Massimo Di Felice, saldano in uno stesso futuro Gaia e il post-umano delle reti digitali. Ma un filosofo accorto come Esposito sa troppo bene quanti possano essere i tranelli consci e inconsci che si nascondono nella volontà di potenza – “ennesima” – della natura umana, della “specie umana”. Ovvero, senza continuare a fare distinzioni, della tecnica. Dunque il conflitto è sempre di nuovo tra la persona e i suoi desideri.
© Riproduzione riservata