La via Crucis e al centro l’universo carcerario. Non i detenuti, non solo i detenuti, ma tutti i protagonisti di quel mondo dolente e sofferente che circoscrive e definisce la dimensione più severa della punizione. Anzi la dimensione più severa dell’umanità. Carcerieri e carcerati insieme in processione, dietro una croce. Una scelta che ha spiazzato e ha lasciato attoniti all’inizio. Tuttavia, man mano che le 14 stazioni si dipanavano e le voci dei carnefici e delle vittime, degli perseguitati e dei giudici, dei custodi e dei cappellani risuonavano in una piazza San Pietro non vuota, ma nuda, si coglieva l’impatto emotivo, riflessivo, spirituale che stava dietro la scelta del Papa anche questa volta Pontefice, costruttore di ponti tra pezzi della società che vivono segregati dalle mura e segnati dalle stimmate della colpevolezza.

Si badi bene, in quella piazza sono stati mostrati mondi che di solito vivono scissi gli uni dagli altri, indifferenti, insofferenti, insensibili gli uni verso gli altri. Uomini e donne che sono accomunati, oltre il colonnato del Bernini, dal rancore vittorioso dei giusti e dalla rabbia inerme degli ingiusti. Un odio reciproco che qualcuno vorrebbe coltivare per sempre. Una separatezza che troppi desiderano sia incolmabile e si sforzano ogni giorno di consolidare da ultimo – in questi tempi della peste – aggiungendovi la beffarda provocazione delle celle come luogo sicuro. Questo vogliono i cultori del carcere concepito come vendetta, della segregazione muraria intesa come marchio indelebile di infamia.

Questo vogliono i boss mafiosi che non tollerano alcun dialogo, che impongono nei bracci dell’alta sicurezza l’odio verso lo Stato, che coltivano la separazione come scelta di supremazia elitaria, che incitano al disprezzo verso gli sbirri. Così un altro patto tra Stato e mafia si consolida tutti i giorni, si rafforza in quest’odio reciproco che tiene distinti e distanti, senza alcuna possibilità di contatto. Con lo Stato, anzi, che in nome di un’aberrante egemonia pedagogica, per giunta negata dalla Costituzione, immagina persino di poter strappare i figli da quelle famiglie indegne, quasi che non fossero più pericolosi e insidiosi i modelli educativi dispensati ai propri pargoli dalle élite dei corrotti o degli evasori.

Ecco che il Pontefice, con quella via Crucis nuda e scandalosa, ha rotto quel patto scellerato, ne ha disvelato l’aberrazione, ha mostrato al mondo che giusti e ingiusti condividono una dimensione etica e spirituale che resta insopprimibile e incoercibile, perché tutti rivelano la propria esistenza servendosi delle stesse parole, anche se distillate dalla fragilità di vite diverse. Il rito più doloroso della Chiesa, quello che piega lo sguardo sconfitto innanzi alla vittoria della morte, mette in comunicazione mondi che qualcuno, con ostinata determinazione, vuole siano sordi e ostili. Sono mossi i distruttori di pace dall’angosciosa paura che la comune umanità disvelata da carcerieri e carcerati possa intaccare il proprio potere e il proprio privilegio, possa rompere le recinzioni etiche e antropologiche che devono dividere i buoni dai cattivi.

In piazza San Pietro, in un venerdì Santo ai tempi dell’unzione virale, la Chiesa cattolica ha consumato il più dirompente atto d’accusa verso l’ingiustizia di quella separazione e inesorabile ha puntato l’indice contro gli strateghi dell’odio reciproco. Non c’erano pentiti di mafia in quell’agorà, né vittime che hanno perdonato i propri carnefici ossia gli epigoni degli unici varchi che la mistica della vendetta concepisce nel muro eretto tra giusti e ingiusti.
Chi era in processione ha, invece, rivelato cosa significhi vivere con il dolore del male procurato e con il dolore del male subito, lo hanno fatto senza alcun cedimento che potesse compiacere la retorica mediatica del perdono lacrimoso e lacrimevole.

«Hombre vertical» disse il presidente messicano Lopez Portillo rivolgendosi a Sandro Pertini in visita. Venerdì sera in piazza San Pietro c’erano donne e uomini che non si piegano e che accettano, nella fede che li sorregge, di vivere la propria condizione di sofferenza senza invocare sconti e senza pietire commiserazioni. Solo un Ponte avrebbe potuto tenerli insieme, perché loro sono donne e uomini verticali, non si genuflettono innanzi ai flutti fragorosi della violenza delinquenziale che li ha colpiti o di fronte alla minacciosa invalicabilità delle mura che li cingono.

La crocifissione di un giusto, la condanna dell’innocente erano la cornice possente che ricordava a tutti, credenti o meno, nel buio fitto di quella piazza, che nessuno ha in mano e per sempre le chiavi della verità e della giustizia. Un messaggio intra ed extra moenia, destinato a raggiungere gli uomini dentro e fuori i propri recinti per ricordare loro – nel giorno che celebra il più iniquo dei processi iniqui – che la giustizia degli uomini è imperfetta e che Dio si è schierato per sempre dalla parte dei condannati, assaporando il dolore della morte tra due di essi.