I forcaioli e la giustizia
La violenza è una malattia, il carcere non è la cura
Gli studi portati avanti dalla medicina, dalla moderna psichiatria e dalla sociologia, hanno dimostrato che il “cattivo”, il mostro che uccide senza motivo, non esiste. Sarà bene che i forcaioli se ne facciano una ragione, anche perché chi non ha ucciso non si immagina neppure quante volte i cosiddetti “assassini” si dichiarano incapaci di darsi una spiegazione razionale per quello che hanno fatto. Molto spesso, pur ritenendosi persone intelligenti e ragionevoli, si dichiarano vittime di pensieri irrazionali e insoliti.
È dimostrato che la paura, l’essere immersi in una cultura violenta, la stessa mancanza del controllo del sé, minano profondamente le ragioni che ci parlano della volontarietà nel compiere un atto di violenza. Del resto, Hilary e Steven Rose, autori di “Geni, cellule e cervelli”, si domandano: «Se le azioni umane sono il prodotto di specifici processi cerebrali, che ne è del concetto giuridico di responsabilità?». Sorge vago il sospetto che i sistemi penali, che operano nel mondo, del concetto giuridico di responsabilità ne sappiano proprio poco, visto che bastano loro anche le pur semplici confessioni o ammissioni di colpa.
Queste persone, come il “sociopatico violento” (che uccide per il proprio piacere), il terrorista islamico (convinto di doverlo essere in adempimento a una volontà divina) o il pedofilo (divenuto tale dopo aver conosciuto la sessualità tanto temuta da chi a sua volta ne fu vittima prima di lui), sono da considerarsi persone malate: ma non risulta su nessun prontuario medico che il carcere possa essere un luogo di cura. Ciò che risulta, al contrario, è che la violenza intraspecifica deve essere considerata come il frutto di una incapacità di porsi nello stato d’animo o nella corretta relazione con un’altra persona con nessuna o una debole partecipazione emotiva. In poche parole si parla di una mancata educazione al vivere sociale e civile, dell’ignorato concetto di ‘empatia’ e, molto spesso, di una non appresa capacità di amare. E queste non possono essere imposte da un regime, ma ricercate con il massimo impegno fin dalle “scuole piccole” nell’applicazione più coerente con il rispetto dei diritti dell’individuo.
Dato che ci siamo: che cosa impedirebbe all’Istituzione scolastica di verificare se, a ciclo di studi concluso, il cittadino “non più studente” sia riuscito a trovare un lavoro legale nel quale cominciare la propria vita nella società civile? E se ciò non fosse, perché non si potrebbe dare un senso più completo ai programmi degli uffici del collocamento? Perché mai di ciò che riguarda la felice relazione di un cittadino con la propria gente dovrebbe occuparsi solo il carabiniere o il magistrato? Perché dico ciò? Per dichiararmi pronto a seguire chi decida, finalmente, di costruire un progetto politico per l’abolizione del carcere e il superamento del sistema penale. “No Prison” ne è un esempio, così come ne è un esempio il libro “Abolire il carcere” di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta.
Tra le molte osservazioni preziose che compaiono nel libro, sono senza dubbio molto rilevanti quelle in postfazione di Gustavo Zagrebelsky, quando definisce che «il carcere è prima di tutto segregazione», oppure quando riferisce che «il Cristo vuole la conciliazione integrale, ma la società degli onesti non la vuole. Il carcere è nato, più che come sanzione, come pulizia della società dai suoi scarti: poveri, vagabondi, mendicanti, sbandati, irregolari d’ogni genere, da offrire in sacrificio all’ordine sociale». D’altra parte la parola “carcere” deriva dall’aramaico “carcar” che vuol dire sotterrare, tumulare. È quel che avviene per i rifiuti tossici, gli scarti nocivi della società dei consumi.
Solo per essere chiaro fino in fondo, dirò con Michael Zimmerman che di fatto la “punizione” ovvero la “pena” diventa lo strumento più ambito nei progetti di chi crede, spesso in modo inconsapevole, nell’illusione totalitaria. Zimmerman sostiene che a ciò serve il proibizionismo, che si vuole far condividere partendo da chi ti vuole punire per l’uso di sostanze psicoattive (volgarmente note come “droghe”). Di fatto l’Antiproibizionismo e l’Abolizionismo del carcere e del sistema penale sono da intendersi come facce di una stessa medaglia.
Mi auguro che un giorno la violenza potrà essere riconosciuta come una malattia sociale da contrastare con mezzi più adeguati della galera. Se poi facessimo lo sforzo di evitare la “delazione di Stato”, come previsto dall’art. 4 bis, potremmo impedire che l’Ordinamento possa definire come imperdonabili molti dei comportamenti umani, e faremmo un deciso passo avanti nel precetto cristiano – e modernamente laico – del “non giudicare”.
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