Il nodo su cui l’autore insiste in ogni pagina è espresso nella paradossale intercambiabilità tra la massima, appunto apparentemente legittima, che sentenzia “la violenza crea il diritto” e, di contro, la massima, all’opposto perturbante, “il diritto crea la violenza”. Nessuna dialettica è qui possibile: tesi e antitesi sono l’una il rovescio dell’altra. E non può esservi sintesi possibile. Può esserci soltanto la consapevolezza di tale impossibilità. I due antagonisti del classicismo moderno da Resta più citati sono non a caso Nietzsche (sulla morte e sulla volontà di potenza della natura umana) e Benjamin (per il quale la violenza che crea il diritto è la stessa che lo conserva). La conseguenza di questo approccio è sentirsi umanamente responsabili di ciò che diversamente specializza la sfera del diritto e la sfera della politica (anche della guerra che ne è la soluzione estrema, finale). E infine la sfera amministrativa (in cui l’esercizio della violenza e delle pene si fa più diffuso e mascherato ma non meno ambivalente). Per questo Resta ci avvisa sul dovere di frenare la produzione sociale di morte e dolore (ad opera appunto del diritto, della politica, delle istituzioni) investendo quanto più possibile sulla legittimità della violenza e sempre meno sul “pharmakon della violenza”. Dunque non su una visione illusoria, ideologica, riformista della violenza, ma su una visione di essa “realistica”, senza “falsa coscienza”. Tragica.

La violenza è sempre “anche” e quindi “comunque” illegittima, e l’idea di cura per mezzo della violenza non fa altro che perpetuare la violenza stessa, confermarne il carattere originario, da un lato, e utilitaristico dall’altro. Ha ragione Benjamin nell’avere posto questo dilemma – alla vigilia della furia novecentesca – direttamente al centro della critica della violenza e non al di fuori, nel campo delle illusioni umaniste e dei principi speranza della civiltà occidentale. Non vi è da avere cura soltanto della violenza del potere e dello Stato moderni, ma, se essa – in base alle leggi di natura del potere e della politica – resta comunque il solo mezzo per raggiungere fini, bisogna allora affrontare l’accadere di una violenza giusta. «E la violenza, giustificata per una volta, dovrà esserlo sempre». Un “giudizio” quello di Resta per nulla ricompositivo, pacificatorio e salvifico, ma tragico. E tuttavia proprio l’inganno della violenza è l’esile margine che resta alla natura umana per distinguersi dalle leggi di natura del mondo vivente, della la sua cecità e carenza di linguaggio. Unica garanzia, seppure incerta, di avere “giusta coscienza” di se stessa.