L'intervista
La visione di Achille Occhetto sul futuro, senza peli sulla lingua
Quello di cui si avverte il bisogno «è una sinistra che non si rigenera in un luogo del passato ma che si incontra in un luogo del futuro in cui saldare le radici storiche del movimento operaio con le inedite sfide epocali e planetarie. Capace non già di evitare ma di stare nel gorgo del conflitto”. E lui, in quel gorgo c’è sempre stato. Con scelte che hanno segnato la storia politica del nostro Paese e quella della sinistra italiana. Achille Occhetto, 84 anni portati benissimo, è stato l’ultimo segretario del Partito comunista italiano (dal 1988) e il primo segretario del Partito democratico della sinistra (fino al 1994), è stato cofondatore e vicepresidente del Partito del socialismo europeo nel 1990, e tanto altro ancora. E anche oggi, con i suoi scritti, frequenta il futuro. E in questa intervista concessa a Il Riformista delinea la sua visione. Senza peli sulla lingua, come sempre.
“Non l’89, ma l’89-91, è il vero tornante d’epoca. La storia la scrivono i vincitori e quindi se la sono raccontata a modo loro e secondo i loro interessi. Colpa incancellabile di quella che oggi si chiama sinistra è di non aver speso un grammo di pensiero su quella vicenda. Gran parte della sua attuale inconsistenza sta qui…”. Così Mario Tronti in una intervista a questo giornale. Ma lei, da segretario del Pci un pensiero forte l’ha fatto e messo in pratica, compiendo una scelta storica: la “svolta della Bolognina”.
Comprendo che quel pensiero che tu chiami forte non è stato sufficiente e poi è stato successivamente deviato. Rimane tuttavia il merito storico che noi per primi, tra tutte le forze politiche italiane, abbiamo compreso il cambiamento d’epoca che si apriva dopo il crollo del Muro di Berlino, abbiamo subito visto che cambiava tutta la geopolitica mondiale, che gran parte dei parametri della politica del ‘900 mutavano. E questo naturalmente avrebbe richiesto un lavoro collettivo di lunga lena dopo un fatto di storica importanza, e cioè dopo il fallimento del primo grande progetto storico di socialismo. E proprio per questo si trattava di elaborare il lutto per riprendere il cammino a sinistra. Invece, successivamente, le sinistre hanno imboccato scorciatoie in gran parte subalterne. Ci si chiede se erano possibili altre svolte. Dopo Giordano Bruno, tutti abbiamo capito che nell’universo è possibile che ci siano altri mondi come il nostro, e quindi che fosse possibile un’altra svolta ci sta. Il problema sul quale dovremmo riflettere è perché non si è fatta. Ma questo lo voglio dire, al di fuori della battuta, per affrontare la questione in modo unitario, proprio perché ci sono alcuni approdi anche nelle interviste che sono state ricordate, che condivido, e alcuni non da oggi. Perché questa constatazione, mentre vedo in filigrana in Tronti un pensiero che non è il mio, mi porta a dire che quel che conta è che l’insieme della sinistra oggi non deve soffermarsi sui tragitti che ciascuno di noi ha percorso, ma sugli approdi. Approdi importanti, come per esempio la rivalutazione del conflitto e la critica della governabilità. Il nuovo spartiacque epocale dovuto anche alla crisi pandemica globale, suggerisce, tanto per intenderci, un salto di visione. Non un incontro in un luogo del passato, ripercorrendo lo scontro sui vecchi tragitti del tutto legittimi, ma è necessaria una sinistra che non si rigenera in un luogo del passato ma che si incontra in un luogo del futuro in cui saldare le radici storiche del movimento operaio con le inedite sfide epocali e planetarie. Capace non già di evitare ma di stare nel gorgo del conflitto.
In questi anni è come se si avesse paura di dichiararsi di sinistra, come se questo definisse un tempo che fu: meglio democratico, progressista etc. Ma di fronte alle sfide epocali del Terzo Millennio, sinistra è una idea spendibile e quale sinistra?
Non ho nessun dubbio che la differenza tra destra e sinistra diventerà sempre più stringente, soprattutto dopo le lezioni della pandemia, che ha determinato un gigantesco svelamento dei mali del capitalismo neoliberista. Ed è proprio nell’incapacità di individuare i nuovi orizzonti del conflitto che sta uno dei grandi torti della sinistra. Che è stato quello di contrapporre, in alcune sue componenti, alla distinzione tra destra e sinistra quello tra innovazione e conservazione, senza comprendere il nuovo conflitto che si apriva dentro la modernità, dentro la stessa innovazione. Per questo non ho apprezzato che si dovesse togliere il nome sinistra al Partito democratico di sinistra. Anche se naturalmente ho capito che la fusione con altre componenti richiedesse una nuova denominazione. Il guaio è incominciato quando non si è tolto solo il nome. Mi chiedi: quale sinistra. Sicuramente una sinistra che non nasce mettendo assieme i cocci del passato, ritornando al balletto, a cui assistiamo negli ultimi tempi, di fusioni e scissioni a freddo di apparati, che sono avvenute sia nella sinistra moderata e sia nella sinistra alternativa, bensì mi sembra necessaria una costituente delle idee, nella quale si trovi un accordo sui fondamentali per quell’incontro in un luogo del futuro di cui ho parlato. Una sinistra ispirata a una progettualità alternativa alla globalizzazione a direzione neoliberista, cui contrapporre un nuovo internazionalismo. Perché è giunto il tempo di dire, a testa alta, che al nazionalismo dobbiamo contrapporre, con coraggio, un nuovo internazionalismo, i cui capisaldi sto cercando di lumeggiare nelle riflessioni che pubblicherò in un libro in autunno.
Massimo Cacciari, su “Il Riformista”, ha accusato la sinistra, e in essa la sua forza maggioritaria, il Pd di essere affetta dal virus del “governismo”. Condivide questa diagnosi e come guarirne?
Sempre in queste riflessioni mi soffermo a lungo sui germi del populismo maturati in campo democratico al cui centro colloco il decisionismo leaderista che ha aperto la strada al rapporto tra il capo e un popolo indifferenziato, senza mediazioni. Alla luce di queste considerazioni è maturata in me l’avversione alla governabilità come unico faro dell’agire politico. Ciò comporta, a mio avviso, di superare la tendenza deplorevole a scegliere la politica come “professione” anziché come “vocazione”. Due termini che in realtà dovrebbero convivere come giustamente sottolinea Tronti. La prima, fondamentale condizione per fare questo sta nell’abbandonare la distorta concezione della governabilità. E questo perché non ha alcun senso predefinirsi sinistra di governo o di opposizione. La vera sfida è quella di definirsi come sinistra progettuale in funzione del governo del paese, che all’occorrenza sta al governo o all’opposizione, a secondo della volontà espressa dagli elettori. L’idea stessa di un partito che ritaglia la sua vocazione nello stare sempre e comunque al governo o all’opposizione, è di per sé contraria alla funzione affidata ai partiti dalla Costituzione, là dove definisce il loro concorso a determinare con metodo democratico la politica nazionale in entrambi i casi.
Il presidente del Consiglio ha riunito gli Stati generali dell’economia, mettendo insieme “padroni” e rappresentanti sindacali dei lavoratori. In questa logica, il conflitto sociale scompare, in nome di un indefinito “interesse comune”. Tronti sostiene che «la lotta di classe è stato il più potente strumento di sviluppo capitalistico. Ha costretto il capitalismo a innovarsi. Se oggi è tutto fermo è perché è venuta meno la lotta di classe».
Naturalmente è ovvio che un governo ascolti tutte le parti sociali. Il problema è che poi deve essere guidato da un progetto di paese che dovrebbe essere alternativo a quello che abbiamo alle spalle, nella consapevolezza che il compito non è quello di ricostruire il passato ma di inventare il futuro. Non c’è dubbio che una simile intenzionalità riaccenderà inevitabilmente il conflitto da destra. Non si può, però, continuare a lasciare il conflitto come appannaggio dei populisti. Per affrontarlo non sarà più sufficiente una sinistra ministeriale che non si confronta nella società. Il conflitto sociale è il sale della terra. La mediazione e il compromesso è l’arte della politica, come sanno anche molto bene i sindacalisti, che nei momenti futuri nella lotta di classe trovano comunque la strada per firmare un contratto. Già in un mio precedente libro, a proposito del valore del conflitto, avevo rivalutato, rispetto a Il Principe, il Machiavelli delle riflessioni sulla prima deca di Tito Livio, nella quale Machiavelli ha perfino una tensione ossessiva per il conflitto, dimostrando che il conflitto ha fatto la grandezza di Roma, e ciò è avvenuto nella fase repubblicana rispetto all’epoca successiva dell’impero. Credo che questo stesso ragionamento valga per il capitalismo, come giustamente ha rimarcato Tronti, perché non c’è dubbio che le grandi lotte operaie hanno rimesso in movimento tutto il sistema. Per ciò che riguarda invece gli Stati generali io ritengo che sia necessario un giudizio articolato. Perché al di là delle polemiche, più o meno pretestuose, che hanno accompagnato questo evento, mi sembra che il risultato più rilevante sia stato quello di suscitare l’attenzione positiva dell’Europa sulla volontà dell’Italia di presentarsi con le carte in regola riguardo le riforme richieste per ottenere i finanziamenti. E non è poca cosa. Tuttavia, malgrado l’emergere di contributi rilevanti, di cui sarà opportuno tenere conto, rimaniamo ancora lontani dall’individuazione di una sintesi che apra, per davvero, la strana a una nova visione del paese. Anche perché una simile sintesi non si farà a tavolino sovrapponendo le proposte in campo, ma emergerà dal contrasto tra progetti alternativi e dalla consapevole partecipazione dei cittadini, e del conflitto sociale. E ciò malgrado l’altro sforzo rilevante che è consistito nella ricerca di un approfondimento programmatico con i corpi intermedi nella prospettiva di una alleanza prioritaria con la società. Tuttavia non si può non rilevare che la stessa alleanza sociale richiede una individuazione delle priorità, un nuovo blocco politico e sociale al cui centro collocare il valore sociale del lavoro e non già la generica nozione di impresa. E molte altre cose che richiederanno una discussione a parte, su cui possiamo risentirci in autunno quando sarà pubblicato il mio libro.
Nell’interloquire con Tronti, Biagio Di Giovanni ha sostenuto, cito testualmente: «L’Occidente, diviso come non mai, non ha più un’idea di sé, e con la fine di questa idea diventa un mondo ancora ricco e diseguale, senza pensiero, e con una crisi evidente delle sue democrazie costituzionali, mantenendo solo il ricordo di una centralità che si va esaurendo».
Non sono capace, in termini di definizione generale, di parlare di tramonto d’epoca. Sono sicuramente convinto, e questo può in effetti rappresentare il tramonto di una fase importante della storia, che siamo nel pieno di una crisi della democrazia. Noi non possiamo limitarci a contrapporre le democrazie occidentali alla destra populista. Il problema è cominciare a discutere di quale democrazia parliamo, di comprendere che la sfida a cui non possiamo sottrarci, pur riaffermando i principi di libertà contenuti nella nostra carta costituzionale, per quanto riguarda le libertà fondamentali, il rispetto delle opposizioni, il diritto della persona e quant’altro, è quella di mettere in campo una idea di libertà unificata, in cui ci sia la sintesi tra una libertà reale e i diritti individuali e collettivi, senza contrapposizione, come è avvenuto, ed è stata la base delle grandi tragedie del ‘900, tra la cosiddetta libertà formale e la libertà sostanziale. Parlerei quindi di una libertà inclusiva. Ma l’idea di una libertà inclusiva ci pone il problema di guardare in faccia, e sono d’accordo in questo con De Giovanni, alla crisi delle democrazie occidentali, e di finirla con la volontà di esportare le cosiddette democrazie occidentali, per aprire una vera visione universale, in cui siano compresenti le diverse culture di democrazia e di partecipazione.
Socialismo. È una parola, un concetto, di un altro secolo, inutilizzabile per guardare a quel futuro di cui parli?
Ritengo che, superato il lutto, bisogna ricominciare a discorrere di socialismo, superando una visione ingenua che tutti noi abbiamo avuto, di una specie di società ben costruita alla quale arrivare, cioè il sole dell’avvenire, tanto per intenderci, ma invece vedere la verità interna alle dottrine socialiste di vario tipo, che poi si sono declinate anche in forme diverse ma che consisteva nel vedere i processi di liberazione umana. Per me, socialismo coincide con il cammino per l’effettiva liberazione umana, e naturalmente non basta dire questa frase che ho detto. L’invito che faccio è non nasconderci più il problema ma incominciare a discorre di nuovo, come avrebbe detto Labriola, di socialismo.
© Riproduzione riservata