Da anni mostrava segni di squilibrio mentale
La vita bruciata di Cosimo Di Lauro tra camorra e 41bis: la storia e il giallo sulla morte
Cosimo Di Lauro è morto. La notizia ieri ha fatto rapidamente il giro, a Napoli è corsa più veloce, la città non ha dimenticato la ferocia della faida e le sue tante vittime innocenti. Cosimo Di Lauro, figlio di Paolo, boss di Secondigliano e del narcotraffico, è morto in una cella del carcere di massima di sicurezza di Opera, a Milano. Aveva 49 anni e gli ultimi diciassette li aveva trascorsi nell’isolamento del carcere duro. Una vita bruciata dalla camorra e dal carcere, la sua. Una storia che è emblematica di come la camorra logori vite, inducendo a commettere crimini anche molto efferati, e di come il carcere e gli ergastoli contribuiscano a finirle quelle vite, azzerando qualunque prospettiva di rieducazione, di recupero. In un modo o nell’altro si muore.
Cosimo Di Lauro era detenuto dal gennaio 2005, e da allora era al 41bis, il famigerato carcere duro. Sulle spalle aveva condanne all’ergastolo per omicidi avvenuti nel contesto della faida tra il suo clan e i cosiddetti scissionisti, una delle più spietate guerre di camorra combattute a Napoli. Da anni Cosimo Di Lauro rifiutava contatti con il mondo esterno (quei pochissimi contatti che gli erano consentiti essendo sottoposto al più severo dei regimi detentivi), non incontrava parenti e difensori, non presenziava alle udienze. Nel 2018 il suo divenne un caso giudiziario, oggetto di più bracci di ferro tra la difesa (avvocato Saverio Senese), secondo cui il giovane boss aveva bisogno di visite specialistiche per accertare se aveva problemi di natura psichiatrica, e la pubblica accusa (Procura Antimafia), che invece bollava i comportamenti anomali del boss come un bluff, una strategia finalizzata ad attenuare il regime di detenzione. Sta di fatto che sono trascorsi circa quattro anni fra istanze e rigetti, fino all’epilogo di ieri. Poche righe, quattro in tutto, ricevute dagli avvocati Saverio Senese e Salvatore Pettirossi.
Il mittente del fax classificato come «urgentissimo» era l’ufficio matricola del carcere di Opera. Nell’oggetto si leggeva: «Detenuto al 41 bis Cosimo Di Lauro, nato a Napoli l’8 dicembre 1973». E subito dopo: «Con riferimento al detenuto indicato in oggetto, si comunica che in data odierna alle 7.10 ne è stato constatato il decesso. Cordiali saluti». Cosimo Di Lauro non era più quello immortalato nelle foto dell’arresto. Soffriva di turbe psichiche, aveva allucinazioni e rifiutava di incontrare i familiari. Pare assumesse dosi di psicofarmaci. Secondo i suoi avvocati, Cosimo Di Lauro era incompatibile con il carcere già da dieci anni. Aveva bisogno di cure. Nel 2008 una prima perizia di parte ritenne che «le attuali condizioni di salute, lungi dall’essere nate improvvisamente o per effetto di una simulazione, siano piuttosto il risultato di un lento processo». Durante la notte a volte «ululava», altre «rideva a crepapelle». Quali siano le reali cause del decesso lo stabilirà l’autopsia. La morte del boss intanto diventa un caso nel caso, un giallo da risolvere. La notizia ha fatto rapidamente il giro dei giornali e dei siti web.
La foto che immortalava il giovane Cosimo con il cappotto nero in pelle e lo sguardo fermo e fiero sui flash dei fotografi che documentavano il suo arresto nel rione dei Fiori, il bunker della famiglia nel quartiere Secondigliano, il 21 gennaio 2005, nel pieno della faida di camorra, è tornata alla ribalta. È morto in carcere, Cosimo Di Lauro, 49 anni, quasi la metà trascorsi da solo fra quattro mura, in regime di massima sicurezza, carcere duro. Una vita bruciata in nome del malaffare e delle vendette. È morto probabilmente di carcere, se è vero che gli anni trascorsi in isolamento avevano creato problemi alla sua salute psichica. Capelli lunghi, igiene trascurata, i farmaci, le risate compulsive nel cuore della notte. Da anni rifiutava qualunque contatto con il piccolo mondo esterno che gli sarebbe stato consentito incontrare. Ad ogni udienza dei vari processi istruiti a Napoli lui non c’era, e puntuale dal carcere arrivava il fax ad annunciare l’assenza: «L’imputato rinuncia a presenziare».
Una formalità fatta di poche parole e di mille dubbi lasciati irrisolti. Di fronte alle istanze della difesa relative alla richiesta di perizie sulle condizioni di salute mentale si contrapponevano le relazioni sanitarie delle varie carceri dove il boss è stato recluso. Una vita bruciata, la sua. Era il primogenito del boss Paolo Di Lauro e come tradizione di famiglia toccò a lui prendere le redini del clan quando il padre fu costretto alla latitanza. I collaboratori di giustizia hanno parlato agli inquirenti della sua prepotente gestione degli affari, molto diversa da quella adottata dal padre, e dei malcontenti che ne derivarono e della faida che ne fu la tragica conseguenza. Ci furono quasi cento omicidi, molte vendette trasversali, tanti innocenti uccisi per una parentela o per un errore di persona. Anni bui per la periferia della città. La camorra da quella parti fagocitava e stritolava vite. Di Lauro era appena trentenne quando si ritrovò in manette e al carcere duro. Ne è uscito da morto e con una serie di dubbi che l’autopsia dovrà chiarire: suicidio o morte naturale? Morire di carcere.
Era accaduto anche sabato scorso, ma non ne ha parlato quasi nessuno. Perché in quel caso il detenuto era un 47enne straniero, un senza fissa dimora che non aveva parenti e non faceva colloqui con nessuno. L’uomo si è sentito male sabato notte ed è morto in ospedale dopo qualche ora, sembra a causa di un improvviso malore. «Nelle ultime due settimane – ha aggiunto il garante – altri due detenuti del carcere di Poggioreale hanno rischiato di morire per arresto cardiocircolatorio e a maggio scorso è deceduto per infarto, sempre a Poggioreale, un sovrintendente della polizia penitenziaria». Di qui il tema degli spazi della pena, della salute in cella.
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