“La terra è fatta di cielo”, ha scritto Fernando Pessoa in La morte è la curva della strada. E la morte, misura di ogni cosa e ritorno alla terra nella congiunzione di emozioni e ossa, è l’ellissi sagittale che in maniera tanto desolata quanto calda, incandescente quasi, accomuna cinque straordinarie figure. Poeti. Senza ulteriori aggettivi. Tutti morti giovani, per propria scelta o per eventi del caso e come spesso avviene, quando la morte si congiunge in armonica danza con il lirismo della poesia, obliati o ricordati principalmente per l’elemento anagrafico o per il dato della morte. Eppure. Ciascuno di loro è una freccia multicolore nel costato delle patrie lettere e dovrebbe essere ripreso dallo scrigno, dalla teca di cristallo e sogni, dentro cui ora riposa.
Giuliana Brescia. Commiato dal mondo deciso con le sue mani a soli 28 anni nel 1973, con quell’impeto michelstaedteriano che conduce al farsi fiamma di se stessi, e una serie di versi ctoni, colmi di abissale rifiuto per la pena dell’esistenza, declinata questa come campo di lotta e come vangelo di ombra e dicotomia feroce tra riaffermazione di sé e inevitabile, ineludibile sconfitta. Tra le sue opere, “Canovacci di racconti che non scriverò”, “Lettere di un soldato”, “Tele di ragno”, la raccolta postuma “Poesie del dubbio e della fede”.
Beppe Salvia. Che del rinnovamento della poesia, in senso stilistico ma pure visceralmente sostanziale, fece missione e che fu pietra angolare negli anni Settanta, collaborando con la rivista Prato Pagano e fondando Braci, di un impeto, di una risalita verso il cielo nero del poetare. “La vita con il suo dolore mi insegna a vivere, ma quasi senza vita”. Professione di un sentimento realissimo e cupo, senza compiacimento, disossante, macina del peso esistenziale. Di lui, Marco Lodoli ha lasciato un bellissimo e altamente simbolico ricordo, “Morte d’un giovane poeta”, apparso sulle pagine di Paese Sera dopo il suicidio di Salvia.
Salvatore Toma. “Io sono morto per la vostra presenza”, lapidario nella morte come nella vita, nella assenza come nella presenza. Una delle voci più puntute, crudelmente sincere e acute della poesia italiana. Raccolti i suoi versi in “Canzoniere della morte”, e la morte, l’annullamento, il senso di asfissia ma anche quello, spettrale e trickster, di gioiosa epifania e di ballo con una morte vista davvero, nella sua verità, solo dagli occhi di chi ama davvero la vita ne compongono ordito metafisico.
Simone Cattaneo. Difficile sempre ricondurre all’immaginifico letto di Procuste delle categorie e delle definizioni. Ma nel caso di Cattaneo è difficile sul serio. Dolorosamente difficile. Corrosivo. Urticante. Capace di spezzare l’apnea di una tradizione poetica consolidata sovente nella noia e capace, lui, di guardare il dolore, quello senza speranza alcuna di guarigione, da dentro, nel groviglio cosmogonico di viscere. “Faro nella burrasca”, lo ha definito Giorgio Anelli. E Cattaneo è stato tanto faro quanto burrasca. Generoso. Irruento. Violento nelle scelte linguistiche e rude e lirico. Sarah Kane e Simon Armitage italiano, aderente nel lessico a una guerra senza quartiere contro i demoni del reale e contro quel deserto che cresce, insondabile, silente ma ferocissimo, fino a spalancarti la fornace di inferno. “Peace & Love”, ne raccoglie alcuni versi assai significativi.
Gabriele Galloni. Straordinario, empatico cantore di una sofferenza quasi liturgica, in questo affine al percorso esistenziale di Cristina Campo, per la quale la condizione di malattia assunse i contorni della vertigine di metafisica e di un giardino di potere espressivo. E la consonanza con la ricerca campiana di luce e di stelle, pur qui nei profili umbratili e quasi rovesciati della non-esistenza, emerge da questo intenso dialogo con i morti che Galloni ha cesellato nei suoi versi, “i morti tentano di consolarci/ma il loro tentativo è incomprensibile:/sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile/della conversazione. Sanno amarci/con una mano – e l’altra all’Invisibile”.