Wes Anderson torna al cinema con “Asteroid City”, una storia strampalata su un gruppo di persone che per una serie di sfortune si ritrova in mezzo al deserto del Nevada, anno 1955. Detta così sembra facile, ma la struttura del film è molto più articolata: in pratica si tratta di uno spettacolo teatrale, che viene registrato per la TV in bianco e nero e che noi spettatori vediamo al cinema a colori. Una scatola cinese di storie e personaggi che riempiono le quasi due ore di proiezioni tra trovate, inquadrature perfette, colori sgargianti e salti di narrazione continui.

La sensazione è che nulla sia stato lasciato al caso, in questo film tutto è meticolosamente “wesandersoniano”, ovvero pianificato, smussato, rileccato. Ogni scena è un bombardamento di immagini simmetriche e primi piani che lasciano poco spazio alla storia, di cui si rimane totalmente indifferenti. Le emozioni, anche se esibite, anche se annunciate dall’inizio e in teoria pesanti (come può essere il lutto di una mamma) restano in sordina, non arrivano mai. Come un sax lucidato molto bene che però suona fioco. L’ambientazione nel deserto poi, che sembra essere il filo rosso che ha unito gli ultimi film USA come Barbie e Oppenheimer, è solo una scusa per ricreare un non-luogo da riempire di esotismi anni ‘50, cactus, cow boy e alieni, cliché americani di cui Wes Anderson ha imbottito la sceneggiatura.

Nel marasma che alberga ad Asteriod City spicca Scarlett Johansson, che interpreta con maestria un’attrice annoiata e malinconica, una specie di Marilyn Monroe dai capelli scuri sempre in cerca di attenzioni. Attenzioni che il protagonista, un foto-reporter vedovo (che alcuni dicono essere ispirato a Robert Capa), le dà immortalandola continuamente con la sua macchina fotografica. Ma il fotografo Steenbeck (Jason Schwartzman) immortala anche l’evento più straordinario, cioè l’arrivo di un alieno. Niente a che vedere con la classica rappresentazione alla Alien o alla ET, l’alieno di Wes Anderson è magro e dinoccolato, è innocuo e si muove leggero, sembra fatto di carbonio e ha occhi grandi come Buster Keaton. Una curiosità che può spiegarci il nonsense di questa incursione è che il film è stato scritto e girato in piena pandemia, e in quest’ottica i rimandi al Covid e al lockdown (a cui gli abitanti vengono sottoposti) sembrano davvero tanti.

Nonostante questo la vita ad Asteroid City scorre in giornate sempre uguali a sé stesse, nel deserto dove incredibilmente non fa caldo e al massimo puoi bere un Martini o vedere un inseguimento sulla statale. Tutto è plasticamente immobile seppur in continuo movimento, proprio come in un cartone in stop-motion di cui il regista è grande amante. La passione per la messa in scena di questa commedia infatti si sente tutta, gli attori scelti sono azzeccati – solo per fare alcuni nomi tra questi ci sono Tom Hanks, Tilda Swinton, Adrien Brody ed Edward Norton – ma il cuore non si vede e le risate non si sentono. E le vicende dei tanti personaggi scompaiono nel filtro saturo delle immagini, neanche fossimo su Instagram.

Dunque su cos’è questo film? Sull’imprevedibilità della vita? Sulla sua inutilità? Forse neanche Anderson lo sa, non a caso inserisce in una delle scene girate in bianco e nero una battuta decisiva del protagonista che dichiara: “Non sto capendo la commedia”. Scena seguita dall’arrivo fatato di Margot Robbie che con il suo costume elisabettiano riporta un po’ di calore. Purtroppo non basta un cameo per salvare una pellicola in cui c’è tanta atmosfera ma zero intimità. Manca insomma quel tocco magico che parla all’anima dello spettatore e che il regista ha saputo mostrare in capolavori come “I Tenenbaum” e “Il treno per il Darjeeling”, diventati cult proprio per la loro poesia leggera, per il dolore malcelato di quelle famiglie disastrate che alla fine riescono a ritrovarsi, a volersi bene. Una bella canzone de “I Cani” diceva “Vorrei vivere in un film di Wes Anderson”, ecco ad Asteroid City probabilmente no.

Maddalena Messeri

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