La vittoria di Donald Trump è per certi versi clamorosa. Va intesa come un segnale per i democratici globali del woke e del politicamente corretto: l’atteggiamento di risentimento, di rancore e di presunzione potrebbe fare molto male, fino a spingerli in un’eterna riserva di opposizione livorosa. L’affermazione del tycoon, inoltre, mette l’Europa di fronte alle proprie responsabilità: senza una politica strategica su Difesa, sicurezza e tecnologia rischia di finire nel dimenticatoio della storia. E questa volta il tema si pone in maniera radicale, tutt’altro che retorica. Su questi punti nasce il confronto degli ospiti del panel de L’ora del Riformista, l’appuntamento settimanale del quotidiano che anima il dibattito sui principali temi internazionali e di politica interna.

Paolo Guzzanti, maestro di giornalismo e colonna del Riformista, punta il dito contro la sinistra: «Non ha mai voluto capire granché della destra americana. C’è proprio una malattia di incomprensione. Ha fatto passare il messaggio che siccome c’è una donna allora tutte le donne si sarebbero precipitate per votarla. Ma non è stato mai vero. Ha portato confusione. L’accusa di fascismo rifilata a Trump è stata sbagliatissima, sotto tutti i punti di vista». Sul piano internazionale si dice «preoccupatissimo» perché potrebbe passare il messaggio secondo cui «chi attacca alla fine prende e vince senza alcuna sanzione in nome della pace». E tira le orecchie alla Ue: «Deve prendere in mano il suo destino, spendere soldi, fare molti investimenti, anche se impopolari».

La doccia fredda dei dem può essere benefica per i progressisti. Secondo Lia Quartapelle, deputata del Partito democratico, il requisito indispensabile è non allontanarsi dalla realtà: «Il risultato è scioccante. La ricetta non ha convinto abbastanza». Nelle società occidentali di oggi la questione della nostalgia «è una cifra molto presente», e questo è un elemento spinoso per i progressisti perché il loro core business è il futuro: «Dobbiamo rispondere con una visione alternativa, che però in questo momento non c’è».

Durissimo il giudizio di Pasquale Ferraro, firma del Riformista: «È stata una notte da incubo per Harris. È stata bocciata e spesso non si è fatta capire». Si è parlato molto del pericolo di una deriva autoritaria, ma suo giudizio crolla la retorica dem sui rischi per la democrazia: «Trump, almeno per ora, ha esordito con un discorso molto conciliatorio. Invece Harris in mattinata non ha né ammesso la sconfitta, né telefonato all’avversario, né parlato ai suoi sostenitori».

Angelica De Vito, consulente diplomatica delle Nazioni Unite ed esperta di diritti umani, fotografa la delusione di chi si schiera a favore del diritto all’aborto e rimarca le principali differenze tra i candidati: «Trump si è soffermato sulla protezione dei confini, Harris ha puntato sui diritti fondamentali. Hanno parlato due linguaggi completamenti differenti: uno dell’economia e l’altro di diritto».

Il successo di Trump adesso apre una sfida: far sì che la legacy rimanga nel tempo e che non sia legata semplicemente alla figura del leader del momento. E su questo piano Ernesto Di Giovanni, partner di Utopia, fa notare un dettaglio importante: «Le proiezioni dicono che nel 2040 la popolazione bianca non sarà più la maggioranza degli americani, ma sarà una maggioranza della minoranza». La partita dei repubblicani si giocherà anche qui.