Due giorni fa la Camera dei Deputati ha recepito la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza nella legge di delegazione europea. Il testo vincola appunto le autorità pubbliche, e dunque gli stessi magistrati, a non presentare la persona come colpevole fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata. Ne parliamo con Gaia Tortora, giornalista e volto noto dell’informazione di La7 e figlia di Enzo Tortora, una delle vittime più famose della malagiustizia italiana.

Come giudica questo voto della Camera?
Sicuramente si è raggiunto un obiettivo importante, anche se con un certo ritardo. Quello della presunzione di innocenza è un concetto che dovrebbe essere scontato, eppure così non è. Quindi il recepimento della direttiva è un passo in avanti per la cultura giuridica del nostro Paese in chiave garantista.

Da un punto di vista politico, abbiamo visto esultare le forze di maggioranza tranne il Movimento Cinque Stelle che ha ridimensionato il risultato. Secondo lei con questa nuova Ministra si può sperare in una più ampia e convinta convergenza verso un approccio garantista della giustizia?
Nutro una discreta dose di fiducia nei confronti del nuovo Ministro della Giustizia perché forse finalmente grazie alla professoressa Cartabia abbiamo l’occasione di depersonalizzare e depoliticizzare la giustizia, di non associarla sempre a qualche personaggio che sia Silvio Berlusconi, Matteo Renzi o lo stesso Alfonso Bonafede. Con questo nuovo Ministro ci muoviamo solamente all’interno di una cornice costituzionale e nel pieno rispetto dei principi di uno Stato di Diritto.

Il deputato di Azione Enrico Costa, che insieme al collega di +Europa Riccardo Magi, si è speso molto a favore della direttiva ha sostenuto in più occasioni che nel nostro Paese la presunzione di innocenza è ignorata. E da ciò derivano una serie di abusi come le centomila persone assolte in primo grado, che però prima hanno subito una feroce gogna mediatica. Lei è d’accordo con questa analisi?
In questo caso sono i numeri a dare valore all’analisi. Dopo di che, bisogna anche dire che il problema non è solo di certe procure che mettono in piedi lo show mediatico, in quanto la gogna appartiene al mondo dell’informazione. È chiaro che se da oggi, con il recepimento della direttiva, un pubblico ministero userà espressioni che inducono a ritenere un indagato già colpevole, il giornalista dovrebbe avere la professionalità per farlo notare: riportare la dichiarazione ma censurarla come inopportuna. Poi ci potrebbe essere anche il caso contrario in cui un pm rispetta il giusto linguaggio ma poi l’informazione fa un tipo di narrazione colpevolista. Quindi eviterei generalizzazioni.

Come si risolve il corto circuito mediatico giudiziario? Ad esempio su molti giornali vediamo pubblicate intere ordinanze o intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’inchiesta giuridica.
Il problema è sempre quello di come bilanciare il diritto di cronaca del giornalista con i diritti degli indagati e imputati quali quello alla riservatezza. Non si può mettere un freno al giornalismo di inchiesta, però i fatti vanno raccontati in maniera oggettiva, realistica senza prendere una posizione che potrebbe instillare nel pubblico il pregiudizio. È importante distinguere tra giornalismo di inchiesta e processo mediatico parallelo. Poi c’è da fare anche una considerazione di tipo politico.

Prego.
Fino a poco tempo fa al Ministero della Giustizia c’era un Guardasigilli di un movimento politico che ha fatto dello slogan “onestà, onestà” il proprio cavallo di battaglia. L’onestà dovrebbe valere in principio per tutti e non spetta a nessuno emettere una sentenza prima di un giudizio definitivo. Questo significa rispettare il principio di non colpevolezza.

Nonostante ci siano dei divieti, vediamo spesso riprese e mandate in onda persone ammanettate. Questa è una responsabilità della nostra categoria di giornalisti.
Certo, è nostra. Nel fare il nostro mestiere dovremmo avere quel buon senso che ci mette nelle condizioni di non sposare la tesi accusatoria e quindi rispettare la dignità di chi viene privato della libertà personale. Poi se vuoi agitare il popolo verso la forca o lasciar intendere che una informazione di garanzia sia già un marchio di colpevolezza allora non stai facendo un buon lavoro. Dividere il Paese tra innocentisti e colpevolisti fa sicuramente share ma non offre un buon servizio al dibattito pubblico.

La Ministra Marta Cartabia proprio nelle sue prime dichiarazioni aveva detto: «A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per una effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale». A suo padre questa riserbo non fu concesso, anzi dovette subire quella che negli Stati Uniti chiamano perp walk o walk of shame, la passeggiata della vergogna dinanzi ai fotografi. Possibile che dopo lo scandalo Tortora abbiamo dovuto aspettare così tanti anni per fare un piccolo grande passo nella giusta direzione?
La dichiarazione della Ministra è ineccepibile. Purtroppo come ricordava lei a mio padre non è stato concesso quel riserbo. Tuttavia da allora qualcosa è cambiato, non molto ma è così. Non credo che si facciano fare più quelle passeggiate della vergona. Certo, soffriamo ancora di una certa politicizzazione dell’inchiesta: diversi trattamenti sono riservati a seconda, ad esempio, del partito o della “casta” a cui si appartiene qualora si venga indagati. Si dovrebbe giudicare in base agli atti e a quello che emerge nei processi, senza nessun altro metro di giudizio. Il problema è profondamente culturale e tocca tutti gli attori in gioco: magistratura, giornalisti, opinione pubblica. Rispetto alla vicenda di mio padre ci fu una nota giornalista che scrisse: «Se è stato arrestato di notte, qualcosa avrà fatto». Instillare questo dubbio nella testa delle persone o conservarlo nella propria mente quando si fa il lavoro di giornalista equivale ad una condanna. Mio padre mi raccontava che, anche se è stato assolto, quando camminava per strada e negli occhi delle persone intravedeva il sospetto nei suoi confronti quella situazione lo uccideva per la seconda volta. L’assoluzione ti ripaga in parte perché il dramma che vivi non ti abbandona mai. Quello che ti si è scatenato intorno non è più risarcibile da nessun punto di vista. Bisogna fare un processo alle nostre coscienze e pensare che a chiunque possa accadere quello che è successo a mio padre e a tanti come lui.

Ci si chiede sempre di immedesimarci nei parenti delle vittime di reati. Io invece chiedo a lei cosa significa essere parenti di una vittima di errore giudiziario, che ha subìto quello che ha subìto suo padre.
È una bomba atomica che ti esplode dentro: è un qualcosa di cui non ti capaciti a maggior ragione se tu credi nelle istituzioni. E mio padre ci credeva da sempre. Non posso poi scordare colleghi che hanno stappato lo champagne perché mio padre era stato arrestato e lo hanno dipinto in maniera distorta. Questo non si può dimenticare. Nonostante la devastazione che abbiamo sofferto, alla fine mio padre è stato assolto. Un giudice ha riconosciuto la sua innocenza e questo mi porta a credere ancora nella giustizia, in quei magistrati che lavorano bene e nel silenzio.

Però chi ha sbagliato tra i magistrati ha fatto carriera. Su questo giornale per primi, stimolati dall’appello rivolto dall’Unione delle Camere Penali al neo presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, abbiamo aperto un dibattito sulla valutazione professionale dei magistrati. In sintesi: quando il Csm valuta i profili per le eventuali promozioni dovrebbe tenere in conto anche le statistiche relative alle inchieste dei pm che si sono poi concluse con le assoluzioni, ad esempio. Ma nella magistratura c’è molta reticenza. Lei che ne pensa?
Sono pienamente d’accordo: i magistrati devono essere giudicati come tutti gli altri. Il tema della valutazione è importante e dovrebbe essere affrontato in questo Paese. Ci sono purtroppo delle categorie che non si sa per quale motivo vogliono sottrarsi e considerarsi immuni. Valutare non vuol dire mettere alla gogna ma esaminare il proprio lavoro.