Con due uomini di punta, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, indagati a Brescia come il loro collega Paolo Storari e Piercamillo Davigo che è lì lì per raggiungere il trio, sta andando in pezzi il mito della Procura della repubblica di Milano. Il fortino degli invincibili e intoccabili, quelli che ti procuravano la scossa elettrica prima ancora che tu li avessi sfiorati (bastava lo sguardo o un parola di troppo), ha decisamente perso non solo lo splendore, ma proprio la verginità.
Prima vediamo un sostituto procuratore scontento del proprio capo perché secondo lui sta trascurando una certa inchiesta (in cui si parla di una loggia segreta fatta anche di magistrati e finalizzata tra l’altro ad aggiustare i processi), che si rivolge a un amico invece che alle vie istituzionali, consegnandogli materiale coperto da segreto. Poi questo amico, che casualmente è un ex uomo del pool e in seguito membro del Csm, a sua volta sceglie una sorta di passaparola per vie informali, fino ad arrivare, con queste carte che misteriosamente passano di mano in mano, al presidente della commissione Antimafia, che c’entra come i cavoli a merenda e che comunque va subito a spifferarlo in Procura. E intanto, mentre le carte “segrete” volano motu proprio fino a due redazioni di quotidiani, si scopre che colui che veniva chiamato Dottor Sottile forse tanto sottile non era. E forse il mitico Pool di cui ha fatto parte a sua volta non era proprio geniale. E magari ha avuto anche qualche “aiutino”.
Poi subentra la famosa maledizione dell’Eni, quella che nel 1993 portò al suicidio di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Solo che questa volta i vertici del colosso petrolifero vengono assolti, pur se dopo tre anni di dibattimento e 74 udienze e dopo che i rappresentanti dell’accusa avevano tentato di far entrare nel processo una sorta di cavallo di troia che avrebbe potuto persino portare il presidente Tremolada all’astensione. E questo è già un brutto neo sulla reputazione della Procura di Milano, il primo fatto di cui dovrebbe forse occuparsi il Csm. Anche perché di questo verbale si sono preoccupati anche lo stesso procuratore Greco e la fedelissima aggiunta Laura Pedio, inviandolo a Brescia per competenza. Sicuramente a tutela del presidente Tarantola, pensiamo. A Brescia c’è stata una repentina archiviazione, ma il Csm è stato informato? Non si sa.
Quello su cui è invece già stato allertato, insieme al procuratore generale della Cassazione, è un fatto di omissione. Perché aver ignorato la manipolazione di certe chat e aver tenuto fuori dal processo Eni un video che avrebbe giovato alla difesa, ha portato il procuratore aggiunto De Pasquale e il sostituto Spadaro sul banco degli indagati, se così si può dire. E anche sul banco degli sgridati, nella motivazione della sentenza, in cui il tribunale si dice sconcertato per i comportamenti dei rappresentanti dell’accusa. Sarebbe mai successo ai tempi splendidi di Borrelli e Di Pietro? Impensabile.
A questo punto, mentre gli uomini di punta della Procura di Milano sembrano cadere come birilli, nella reputazione ma anche nelle carte processuali, il dottor Nicola Gratteri da Catanzaro può veramente cominciare a scaldare i muscoli e farsi la bocca sulla possibilità di succedere a Francesco Greco nell’autunno milanese. Poche sere fa, ospite di una dolcissima Lilli Gruber, sprizzava soddisfazione e infilava gli occhi diritti nella telecamera (un po’ come un tempo faceva Di Pietro), presentandosi come uno diverso dagli uomini del Sistema di Palamara. E quindi anche da quelli del fortino milanese. Non ho mai fatto parte di alcuna corrente, dice, e mai lo farò, per questo ho perso molte occasioni di andare a presiedere Procure prestigiose.
Poi vi dico anche che ritengo che i membri del Csm debbano entrare per sorteggio e non per traffici o camarille politiche. Se la carica di Procuratore della repubblica di Milano dovesse essere assegnata tramite referendum popolare, Nicola Gratteri avrebbe già detto al suo collega “fatti più in là” e sarebbe già seduto al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano prima ancora che Greco abbia compiuto i 70 anni, età della pensione dei magistrati. Si spezzerebbe così non solo la tradizione almeno trentennale del fortino di Magistratura democratica, ma anche il permanere di quello stile ambrosiano, intriso di fair play istituzionale e garbo politico molto gradito al ceto dei partiti, quelli contigui fin dai tempi di Mani Pulite, naturalmente. Quel rito ambrosiano che indusse il premier Matteo Renzi a ringraziare il procuratore capo Bruti Liberati per aver consentito l’apertura per tempo dell’Expo. Uno sforzo che non ha però salvato il sindaco Sala dall’arrivare poi a una condanna per falso ideologico, infine tamponata dalla prescrizione. Ma il garbo ambrosiano c’era stato.
Quello stile oggi è decisamente incrinato. Il procuratore Greco si era fino a poco tempo fa salvato da situazioni come quella di vera sparatoria all’o.k. Corral tra il suo predecessore Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Ed è uscito abbastanza indenne dal libro di Sallusti, anche se con qualche ombra polemica sui colleghi nominati come suoi aggiunti. Palamara è stato garbato nei suoi confronti, e gli ha consentito di continuare a governare la Procura più famosa d’Italia “con la diligenza del buon padre di famiglia”. Ma gli sono esplose tra le mani, in sequenza, prima la vicenda Storari-Pedio-Davigo e poi il processo Eni, la maledizione del tribunale di Milano fin dai giorni di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini. Ma erano altri tempi, quelli, e Francesco Greco c’era, con il procuratore Borrelli e gli altri del pool. Erano gli anni Novanta. Quelli in cui a cadere nella polvere erano i ministri di giustizia.
Claudio Martelli con un’informazione di garanzia, Giovanni Conso e Alfredo Biondi per due decreti che avrebbero cambiato in meglio le regole della custodia cautelare e dei reati contro la pubblica amministrazione. Erano tempi in cui bastava una telefonata del procuratore: signor ministro le sto inviando un’informazione di garanzia, e lui si dimetteva. Oppure si concordava la linea con i direttori dei tre principali quotidiani d’informazione e dell’Unità (che garantiva la complicità del principale partito della sinistra) e il decreto era affossato. O anche si andava in tv con gli occhi arrossati e la barba lunga a dire che senza manette non si poteva lavorare e l’altro decreto cadeva e in successione anche il governo. Bei tempi, quelli.
E il capolavoro dell’abbattimento del ministro Filippo Mancuso? Quello fu un vero combinato disposto Procura-Pds. Il guardasigilli “tecnico” del governo Dini, voluto personalmente dal presidente Scalfaro, fu in realtà il più politico e il più coraggioso. L’unico che non si fece mai intimidire dalla potenza degli uomini della Procura milanese, quello che la inondò di ispezioni. La prima dopo il suicidio di Gabriele Cagliari, illuso e poi deluso dal sostituto procuratore Fabio De Pasquale e suicida dopo 134 giorni di carcere preventivo. Ma poi altre, per verificare se rispondesse a verità il fatto che gli indagati venissero tenuti in carcere fino a che non avessero confessato e fatto anche “i nomi”. I più gettonati erano quello di Craxi, e in seguito quello di Berlusconi. Un modo di procedere confermato dallo stesso procuratore Borrelli, che candidamente dichiarava: noi non li teniamo in carcere per costringerli alla confessione, ma li liberiamo solo se parlano.
Il Sistema Lombardo che evidentemente non turbava i sonni dei componenti del Csm, ma anche che piaceva molto ai discendenti di Vishijnsky, il cui partito allora si chiamava Pds, Partito democratico della sinistra, fratello maggiore del Pd. Così fu inaugurata con la defenestrazione del ministro Mancuso la stagione della sfiducia individuale. Con il quarto ministro guardasigilli abbattuto dal potere della Procura di Milano, uno in fila all’altro. Giusto per rinfrescarci la memoria, e per dare a Cesare quel che è di Cesare, qualcuno ricorda la fine miserrima delle Commissioni Bicamerali? Si potrebbe alzare il telefono e fare due chiamate a coloro che ne furono i presidenti, Ciriaco De Mita e Massimo D’Alema. Il primo fu apparentemente travolto dall’arresto di suo fratello, ma la verità è che, proprio mentre la Commissione stava timidamente (così lo ricorda anche Marco Boato, che era presente) affrontando il tema della separazione delle carriere, irruppe in aula e fu distribuito a tutti un Fax dell’Associazione nazionale magistrati con decine di firme di toghe, comprese quelle degli uomini del pool, che intimava di non affrontare nella Commissione il tema giustizia. E l’argomento sparì.
La seconda Commissione subì i colpi di un’intervista del pm Gherardo Colombo al Corriere della sera, in cui veniva ricostruita la storia d’Italia come pura storia criminale. Una frase andò diritta al cuore del Presidente Massimo D’Alema: state attenti, che di Tangentopoli abbiamo appena sfiorato la crosta. Fu sufficiente, anche se la guerra-lampo durò tredici giorni, e alla fine chi ci rimise non fu, ovviamente l’uomo del pool ma l’incolpevole ministro di Giustizia Giovanni Maria Flick.
Bei tempi davvero. Oggi con tre indagati e un ex in crollo di reputazione pare un po’ difficile che la Procura di Milano abbia la forza, non diciamo di far cadere la ministra della Giustizia, ma neanche di bloccare leggi e decreti. Ma il problema è: questa classe politica, che teoricamente dovrebbe essere più forte di quella che mostrò la propria fragilità abrogando l’immunità parlamentare, ha la capacità di cogliere l’attimo? Pare proprio di no. Ma ci saranno i referendum, e forse quella forza la troveranno direttamente i cittadini.