Lucio d’Alessandro, vice presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Crui), commenta la situazione legata al recente decreto del Ministero dell’Università che definisce la quantità di punti organico assegnati a ciascun ateneo determinando la quantità di personale docente che potrà essere assunto. Conseguenza del decreto è che le università del Mezzogiorno potranno assumere meno docenti di quelle del Nord perché, in base agli indicatori utilizzati per il calcolo, riceveranno meno punti organico. Questo vuol dire che gli atenei che hanno più risorse e che si trovano in un contesto di maggiore sviluppo economico potranno assumere più personale docente rispetto al normale turnover, mentre quelli che si trovano in territori meno sviluppati potranno procedere a un minor numero di assunzioni senza assicurare nemmeno l’intera copertura del turnover. Quindi, quanti professori può assumere un’università? Dipende dai punti organico che riceve.

Il punto organico è l’ unità di misura utilizzata dal Ministero per definire la dimensione annuale delle assunzioni effettuabili da parte degli atenei. Ogni dipendente, sulla base della tipologia (personale docente e personale tecnico–amministrativo) e del livello di inquadramento corrisponde a un equivalente in punti organico. D’Alessandro spiega il meccanismo che regola queste assunzioni e ipotizza una soluzione a questa situazione che vede le università del Nord un passo avanti rispetto a quelle del Sud. «Attualmente i punti organico sono distribuiti in due quote. La prima assegna a ciascun ateneo punti organico corrispondenti al 50% dei propri pensionamenti dell’anno precedente. Quindi ciascun ateneo potrà sicuramente assumere il 50% dei docenti andati in pensione. I rimanenti punti organico relativi all’intero turnover nazionale sono inseriti in un jackpot a disposizione degli atenei cosiddetti “virtuosi” che competono in base a un parametro influenzato dalla capacità di raccogliere risorse da parte di ciascuna università».

Chi è più ricco può assumere di più e quindi avere più corsi di laurea e una migliore qualità dell’offerta formativa. «È un meccanismo che crea un effetto distorsivo – spiega d’Alessandro – perché le università che si trovano in territori economicamente più deboli hanno meno possibilità di ricavare risorse dal contesto esterno. Insomma è noto che in alcuni territori ci siano redditi medi più alti e quindi possibilità di imporre tasse più alte per gli studenti. E negli stessi territori esiste per di più la possibilità di ottenere risorse da parte di banche e fondazioni che hanno interesse a orbitare attorno al sistema universitario». La funzione storica delle università è quella di fucina di cultura, informazione, talento e dottrina. Ora, invece, sembra che debba raccogliere risorse per far sviluppare il territorio, ma il suo apporto sta nel formare giovani che entreranno nel mondo del lavoro. In pratica, è un processo che andrebbe invertito.

«Non si tratta di un problema di maggiori o minori finanziamenti da parte dello Stato perché non accade che l’ateneo che non può coprire il suo intero turnover venga de finanziato. Il vero problema è che l’università è soprattutto una comunità di studenti e di docenti in cui il capitale umano è decisivo. Bloccare la crescita di questo capitale soprattutto in alcune zone del Paese significa condannarle in qualche modo a restare indietro». Come rimediare al divario sempre più grande tra l’offerta formativa delle università del Nord rispetto a quelle del Sud? «Il ruolo che possono esercitare le Regioni è importante. Anzitutto quello politico di mettere all’ordine del giorno il tema nella Conferenza Stato-Regioni. Poi qualcosa in termini finanziari si potrà fare soprattutto se le risorse europee disponibili nel programma Next Generation EU verranno destinate pure al sistema universitario e ai suoi giovani».

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.