C’è qualcosa di misterioso e affascinante nel Pinocchio (1881) di Carlo Collodi che ritroviamo in poche altre opere di narrativa. È intanto un’opera inclassificabile: romanzo onirico, fiaba, racconto per piccoli o per adulti, o cosa altro? E se ha sicuramente colpito la nostra immaginazione da fanciulli, come è proprio delle fiabe, essa continua a inquietarci anche da adulti forse perché inconsciamente ci rendiamo conto che in essa è in gioco molto più di quel che comunemente lo è nella letteratura infantile, fosse pure la più sublime.

È un’opera pedagogica, educativa, tesa a mandare un messaggio morale edificante e a formare quindi i fanciulli che la leggono o l’ascoltano, come era sicuramente la coeva serie dei racconti del Cuore (1886) di Edmondo De Amicis? Sì e no, anzi più no che sì, anche perché non si capisce bene se Collodi, il cui vero nome era Carlo Lorenzini (1826-1890), stia dalla parte del burattino impertinente ed eslege o da quella del “ragazzino per bene” che alla fine diventa. Non c’è un teleologismo, la fine del percorso non è sicuramente una salvezza, o almeno non del tutto (e Pinocchio che guarda a quel pezzo di legno che fu lo fa con “compiacenza” non con sdegno o ribrezzo). E questa contraddittorietà e ambiguità si mostra in tutte le vicende che Pinocchio si trova a vivere, sempre di corsa, con l‘impressione di fuggire prima di tutto da se stesso, anzi da ogni se stesso o identità compiuta. Il tutto nel segno di un permanente grumo di ossimori che potremmo dire “tragici” se la tragedia non fosse qui condita da toni lievi, sospesi in un altrove, in fondo gaudenti e felici (anche la sorte più cattiva è sempre vissuta da Pinocchio con una certa incoscienza e soprattutto nella consapevolezza che c’è sempre una via d’uscita, un “ma”).

C’è qui una sostanziale accettazione e un convinto “dir di sì alla vita”. E chi meglio di Luigi Comencini riuscì a rendere, col suo Pinocchio televisivo, questo generale stato d’animo che promana dalle pagine di Collodi? In tutt’altro modo, lavorando più coi concetti che con l’immaginazione e la rappresentazione, si avvicina ora al personaggio Giorgio Agamben, Pinocchio. Le avventure di un burattino doppiamente commentate e tre volte illustrate (Einaudi, pp. 67, euro 20). Lo fa con grande cultura e indubbia maestria, consapevole della molteplicità di piani che si intersecano e contraddicono nel libro, che egli si propone semplicemente di rileggere insieme a noi, afferrandone i più reconditi motivi in archetipi, simboli e stilemi storico-culturali, noti e meno noti, da Collodi volutamente richiamati o ad esso semplicemente accostabili. Lettura e commento, questo è quel che Agamben fa in una sorta di “fenomenologia dello Spirito”, o se preferite nella “esperienza della coscienza fantastica” di un ragazzo che fu un pezzo di legno, che è uomo e fu anche bestia (somaro); che costruisce la sua (non) identità per mezzo di personaggi “reali” (Geppetto, Lucignolo) o fantastici e semi-fantastici (la fata Turchina, il Grillo parlante, il Gatto e la Volpe) e passando per luoghi irreali a volte suadenti (il paese dei balocchi) e altre volte inquietanti (il ventre del Pesce-cane).

Alla lettura puntuale (e spesso trasposizione) delle parole del libro, si accompagna, aperto sul tavolo, un terzo testo da commentare e che è a sua volta un commento (il “commento parallelo”): il Pinocchio di Giorgio Manganelli, con cui Agamben a volte concorda e altre volte, e più spesso, no. Le illustrazioni straordinarie che corredano poi il testo sono a loro volta tratte da tre storiche edizioni illustrate del capolavoro. Agamben individua la “eccentricità” del Pinocchio di Collodi nel suo porsi in uno spazio di confine irreale che destruttura continuamente quella “macchina antropologica” che «nella nostra cultura è incessantemente al lavoro» e «che distingue e, a un tempo, connette e articola strettamente insieme l’animale e l’umano, la natura e l’esistenza storica».

Ma anche l’articolazione fra vita e sogno ne esce smontata: non solo nel senso che la vita stessa è o può essere sogno (per dirla con Calderon de la Barca), ma in quello più radicale che il sogno, con i suoi fantasmi e le sue disconnessioni, può essere la vita “vera” e la vita “vera” un addormentarsi e soggiornare in un luogo di apparenze fatte di forme chiare e distinte. Se un’opera vive nei suoi effetti e nelle sue interpretazioni (la Wirkungeschichte di cui parla Gadamer), Pinocchio non morirà mai e sempre riconquisterà i lettori, vecchi e giovani che siano, con la sua gioiosa e leggera ma pure destabilizzante ambiguità.